Reisa Sperling, professore di neurologia alla Harvard Medical School e condirettore dell'Harvard Aging Brain Study. (Foto: Rose Lincoln)
Scoprirla presto. Queste sono le parole d'ordine nella battaglia contro una serie di malattie, da quelle cardiovascolari, al cancro, al diabete di tipo 2. La diagnosi precoce offre ai medici la possibilità di minimizzare i danni, inserire uno stent e mantenere il flusso di sangue al cuore, rimuovere un tumore prima che uno diventi molti, sollecitare cambiamenti cruciali dello stile di vita come perdere peso, mangiare meglio, fare esercizio fisico.
Ma questa strategia può funzionare per l'Alzheimer? Gli scienziati stanno iniziando a pensare che potrebbe essere così. L'Harvard Aging Brain Study, un progetto finanziato dal National Institute on Aging, giunto al settimo anno, ha dimostrato che l'amiloide-beta, la proteina ritenuta causa dell'Alzheimer, si accumula nel cervello anche più di dieci anni prima che si notino i sintomi [della malattia].
Tale constatazione ha dato una nuova speranza ai ricercatori che lottano per superare una valanga di fallimenti importanti negli studi clinici dei farmaci. In Febbraio, appena tre mesi dopo che la Eli Lilly & Co. aveva annunciato il fallimento di un esperimento, il produttore di farmaci Merck & Co. ha bloccato uno studio. Diversi altri farmaci sono ancora in sperimentazione, ma i ricercatori stanno riconsiderando il loro approccio e si chiedono se il problema è cercare di invertire, piuttosto che prevenire, la demenza.
“Penso che abbiamo fallito 11 esperimenti di fase 3, non è un buon risultato”, ha detto Reisa Sperling, professore di neurologia alla Harvard Medical School, medico del Brigham and Women's Hospital, e condirettore del Harvard Aging Brain Study al Massachusetts General Hospital (MGH). “Da un punto di vista clinico, è un fallimento orribile”.
Ora, l'idea di “scoprirla presto” è stata messa alla prova in un nuovo studio chiamato A4 (Anti-Amyloid Treatment in Asymtomatic Alzheimer's Disease), guidato dalla Sperling e da Paul Aisen della University of Southern California. I ricercatori proveranno un farmaco anti-amiloide sulle persone che non mostrano segni di declino cognitivo, ma che hanno livelli anormalmente elevati di amiloide-beta nel cervello.
“Penso che questo sia un esperimento estremamente importante”, ha detto Aisen. “E' il primo in una popolazione che chiamiamo ‘Alzheimer preclinico'. Crediamo che questo possa identificare una fase precoce della malattia, non solo in pazienti ‘a rischio’ .... Se aspettiamo che le persone abbiano i sintomi, c'è già una neuro-degenerazione sostanziale”.
Negli ultimi decenni, i ricercatori hanno elaborato quello che molti credono sia il meccanismo passo-passo attraverso il quale l'Alzheimer fa il suo lavoro. L'amiloide-beta, una proteina naturale la cui funzione normale nel cervello è tuttora poco chiara, si accumula in quantità anomala. L'amiloide-beta forma placche, che a loro volta portano ai grovigli della proteina tau all'interno delle cellule nervose, uccidendole. Questo innesca l'infiammazione, una risposta naturale che combatte l'infezione, che in questo caso non fa che peggiorare le cose.
L'A4 sta selezionando tra 5.000 candidati cognitivamente normali, età 65-85, con l'obiettivo di iscriverne circa 1.150 che hanno livelli elevati di amiloide-beta. L'esperimento testerà il solanezumab di Eli Lilly, un anticorpo anti-amiloide che si è dimostrato sicuro, anche se giudicato inefficace, nei pazienti con demenza lieve da Alzheimer. L'anticorpo punta le forme solubili della proteina, non le placche stesse. Anche se il solanezumab è stato provato nei pazienti di Alzheimer senza successo, i dati provenienti da quell'esperimento avevano indicazioni di tendenze positive, ha detto la Sperling.
Lo studio A4 (in corso presso 67 siti negli Stati Uniti, Canada, Giappone e Australia) ha già arruolato 875 persone ed è finanziato dal National Institute on Aging, dalla Eli Lilly, e da diverse organizzazioni filantropiche. Gran parte del lavoro di lancio - la firma dei partecipanti e la gestione dei dati - è stato condotto dall'Alzheimer’s Therapeutic Research Institute della USC.
Lo studio A4 si basa sui risultati dell'Harvard Aging Brain Study, che ha avuto inizio nel 2009 ed è diretto dalla Sperling e da Keith Johnson, professore di radiologia dell'HMS e del MGH. Lo studio, che ha finanziamenti fino al 2019, scansiona il cervello di persone da 60 a 90 anni per seguire i cambiamenti nel tempo.
All'inizio del 2013 era chiaro che i pazienti che hanno iniziato con livelli più elevati di amiloide - anche quelli che erano cognitivamente normali - avevano un tasso molto più veloce di declino della capacità cognitiva, da quattro a cinque volte quello dei pazienti con livelli normali della proteina, ha detto la Sperling.
Questa scoperta puntava a un inizio molto più precoce della malattia di quanto gli scienziati avevano capito e ha portato all'approccio “rilevarlo prima” dell'A4. La Sperling si preoccupa, tuttavia, che anche il progetto dell'A4 possa intervenire troppo tardi, e che, anche se i soggetti sono cognitivamente normali, i loro livelli alti di amiloide hanno già segnato la cascata che finisce nella demenza, che un farmaco non può fermare.
E quella non è la sua unica preoccupazione. Anche se lo scenario amiloide-tau-infiammazione ha guadagnato un ampio sostegno, rimangono molti scettici. In realtà, ci sono abbastanza eccezioni nell'Harvard Aging Brain Study da far esitare la Sperling: casi di persone con alti livelli di amiloide-beta che non hanno declino cognitivo e altri con livelli più bassi, che però peggiorano rapidamente.
“Penso che ci siano ancora troppe questioni [aperte]”, ha detto. “Possiamo spiegare solo il 50 per cento - ad essere ottimisti - della varianza di ciò che accade cognitivamente alle persone. Cosa succede se siamo sulla strada completamente sbagliata? E se fosse tutto circostanziale? E se ci fosse qualche fattore-X gigante che ci siamo persi?”
Anche Dorene Rentz, professoressa associata di neurologia all'HMS e al Brigham e condirettrice, con la Sperling, del Center for Alzheimer Research and Treatment dell'ospedale, sta lavorando allo studio A4. Per la Rentz le questioni aperte nell'Alzheimer includono i ruoli relativi di amiloide-beta e tau. Anche se la rimozione dell'amiloide-beta è stato finora uno degli elementi principali nello sviluppo di farmaci, potrebbe essere che bisogna rimuovere la tau, che forma i grovigli all'interno dei neuroni, per vedere un effetto clinico. E non ci sono composti che fanno questo lavoro.
“Ma l'argomento nella comunità è che dobbiamo iniziare da qualche parte”, ha detto Rentz. “Tutto quello che abbiamo fatto è fallire”.
L'infiammazione associata alla malattia - parte del processo di eliminazione delle proteine amiloide e tau dal cervello, ma distruttivo per il tessuto - è un'altra domanda senza risposta, ha detto la Sperling. E' possibile che si debba ridurre o evitare del tutto l'infiammazione per non avere danni cognitivi. Un'altra possibilità è che l'Alzheimer faccia parte di un problema di fondo, l'incapacità di gestire i rifiuti delle proteine e, come ha detto la Sperling, “svuotare la pattumiera di proteine del corpo”. Il fatto che anche altre malattie neurodegenerative, come la sclerosi laterale amiotrofica e il Parkinson, siano collegate all'accumulo di proteine anomale, punta potenzialmente a un problema più ampio.
Nonostante queste domande, Sperling, Aisen, e Rentz concordano sul fatto che c'è senso di speranza nella comunità di Alzheimer, una sensazione che i progressi nei diversi settori abbiano messo la scienza sull'orlo di una svolta. “Sono molto fiducioso sul settore in generale”, ha detto Aisen. “C'è una serie di terapie promettenti. Credo che avremo successo e credo che sarà un successo di grande impatto. Questo è un enorme problema di salute mondiale e un grave problema per la salute di questo paese“.
Se l'A4 fallisse, la Sperling ha un piano per cercare di individuare la malattia più presto ancora. Mentre l'A4 punta pazienti cognitivamente normali con alti livelli di amiloide, lei sta progettando l'A3, che testerà interventi su persone di 60 anni - o anche di 50 - che sono cognitivamente normali e i cui livelli di amiloide devono ancora salire. “L'A3 sta cercando di avvicinarsi alla prevenzione primaria, spingendosi ai limiti estremi”, ha detto la Sperling.
Per Sperling e Rentz, l'Alzheimer non è solo un problema clinico, ma anche personale. Il marito della Rentz ha la malattia e sta attualmente partecipando a un esperimento di farmaci, e la carriera della Sperling è scaturita dall'Alzheimer di suo nonno, che è diventato evidente quando faceva la richiesta per entrare alla facoltà di medicina. Il padre, che era professore di chimica alla Lehigh University, ha avuto la diagnosi della malattia sei anni fa ed è morto l'anno scorso.
“Ingenuamente pensavo che avrei potuto fare qualcosa prima che [la malattia] toccasse altri membri della mia famiglia”, ha detto Sperling. “Spero che i miei figli non debbano prendersi cura di me in quel modo e spero che i miei nipoti non arrivino mai a sapere che cosa è l'Alzheimer”.
Fonte: Alvin Powell in Harvard Gazette (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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