Sebbene la maggior parte di noi impieghi i termini empatia e compassione come sinonimi, gli autori professionisti in genere distinguono tra questi comportamentali ideali strettamente legati. In particolare, essi considerano l'empatia come la capacità di mettere se stessi nei panni di un altro, che coinvolge non solo sperimentare indirettamente il suo punto di vista, ma anche le sue emozioni corrispondenti.
Compassione, tuttavia, è considerata l'insieme dei componenti dell'empatia, ma con un passo cruciale in più. Letteralmente significa “soffrire insieme”, si concentra più sulla volontà di agire realmente per alleviare le sofferenze altrui. In realtà, l'eminente psicologa Barbara Fredrickson l'ha soprannominata “empatia in azione”.
E tali sforzi proattivi possono registrarsi fisicamente con battito cardiaco rallentato, secrezione dell'ormone del legame (ossitocina), e coinvolgere regioni del cervello associate con il caregiving. Inoltre, poiché supportare con auto-disinteresse il benessere di un altro può essere intrinsecamente gratificante, agire con compassione può anche accendere i centri del piacere del proprio cervello.
Alcuni autori che indagano sulle conseguenze negative di esagerare i propri sforzi per conto di un altro hanno etichettato il fenomeno “fatica dell'empatia”. Ma la maggior parte degli autori usano il termine “fatica della compassione” (vedi, in particolare, Figley, 1995). E questa preferenza può essere perché quest'ultima denominazione suggerisce che le persone che esagerano con la loro compassione hanno più probabilità di “assumere” il dolore di coloro che stanno tentando faticosamente di aiutare.
Al contrario, gli empatici possono sforzarsi di 'introitare' con precisione (sia cognitivamente che emotivamente) l'esperienza delle persone con cui si stanno identificando intimamente, ma senza lo stesso sforzo arduo. E quindi sono un po' meno vulnerabili all'esaurimento emotivo che deriva da un coinvolgimento più compassionevole con il sofferente.
I benefici di empatia e compassione
Questa citazione probabilmente lo dice meglio:
"Molte delle persone più sagge del mondo hanno dichiarato che dare agli altri nella vita è la fonte più grande di appagamento e di soddisfazione della vita".
Di più, si può percepire come un onore il fatto che un'altra persona si fidi abbastanza di noi da darci la sua fiducia e da condividere alcune delle sue esperienze più vulnerabili e perfino traumatiche. (E come terapeuta, mi sono sentito così innumerevoli volte). Come ascoltatori attenti, a un certo punto tali rivelazioni intime possono anche darci l'opportunità di espandere la nostra “conoscenza percepita” di ciò a cui potremmo essere in grado di collegarci solo indirettamente. E conoscendo i dettagli più intimi, e talvolta inquietanti, della vita di un altro, siamo in grado di ampliare la nostra comprensione compassionevole della natura e della portata dell'esistenza umana.
Tale condivisione ci rende più consapevoli 'sensibilmente' di ciò che non abbiamo mai dovuto passare noi stessi. E se saremo chiamati in futuro a farlo, saremo molto più preparati, emotivamente, per gestire la prova. Perché nella nostra testa, e anche nel nostro corpo, ci siamo già esercitati per una tale contingenza. In breve, collegarci empaticamente a quello che un altro ha condiviso può aumentare la nostra umanità e approfondire i nostri sentimenti di connessione.
L'onere gravoso di prendersi cura: Fatica della Compassione e Traumatizzazione Indiretta
Allora, chi è più in pericolo di subire fatica empatica, o fatica di compassione? Potrebbe essere chiunque la cui originaria fornitura empatica si è ristretta, o potrebbe essere qualcuno che ha assunto la responsabilità onerosa di aver a che fare con il dolore enorme e il lutto. In un saggio intitolato “Running on Empty”, Françoise Mathieu suggerisce i potenziali pericoli di sovraccaricarsi per gli altri, citando le parole di Rachel N. Remen (1996):
L'aspettativa che possiamo essere immersi tutti i giorni nella sofferenza e nella perdita e non esserne toccati è altrettanto irrealistica di aspettarsi di riuscire a camminare sull'acqua senza bagnarsi.
Non sorprende che i professionisti del counseling siano particolarmente soggetti ad esaurire le risorse empatiche. In un pezzo chiamato “Empathy Fatigue” (2013), Lynne Shallcross nota che il rapporto consulente-cliente richiede “ascolto intenso e compassionevole”. E quello a cui, in particolare, i consulenti devono essere attenti, e con cui identificasi empaticamente, sono le “ferite” inquietanti ritratte a loro non da uno solo, ma da molti dei loro clienti in difficoltà.
Ad un certo punto, cercare deliberatamente di relazionarsi con tanta miseria condivisa può richiedere un pedaggio al consulente. Per i loro sforzi di “essere lì” pienamente per i loro clienti, hanno i loro limiti e possono arrivare a una fase di esaurimento. Quando questo limite viene raggiunto, insorge una fatica emozionale, e si compromettono la resilienza e la capacità di far fronte (sul posto di lavoro e/o in casa). In breve, le persone nelle professioni di aiuto sono particolarmente a rischio di restare feriti loro stesse. O ri-ferite, se l'empatia con il dolore dei loro clienti (fisico, mentale o emotivo) finisce per costringerle a rivedere i propri disturbi psicologici precedenti che, non essendo mai stati completamenti rettificati, portano ancora una carica negativa.
Altri professionisti altamente soggetti a fatica dell'empatia o della compassione includono:
- Gli infermieri, in particolare quelli con carichi di lavoro pesanti, con malati terminali, o che devono trattenersi dal reagire negativamente ai pazienti verbalmente aggressivi o ostili.
- I giornalisti di guerra e di eventi disastrosi dove sono spesso in prossimità di trauma diffuso e terrificante.
- Vigili del fuoco, addetti al salvataggio e poliziotti il cui lavoro comprende in genere occuparsi di situazioni estreme ed emotivamente stressanti.
- Avvocati la cui pratica richiede che siano presenti a scene di incidenti, di esporsi a prove cruente e grafiche, o che devono leggere o scrivere regolarmente su eventi traumatici.
- I caregiver di anziani e deteriorati, in particolare quelli le cui risorse sono tese al massimo nella cura per malati di Alzheimer in fase di deterioramento.
- E molti altri, come suggerito da Diane Cole in “The High Cost of Caring” (2017), che elenca, oltre a alcuni di quelli già citati, i soldati, gli operatori di primo intervento, operatori umanitari e chirurghi.
Come osserva la Cole con triste ironia: “Più i lavoratori sono empatici e aperti al dolore degli altri, più è probabile che condividano i sentimenti di crepacuore e devastazione delle vittime”. O, come Jordan Rosenfeld (“Emotional Exhaustion: Is Empathy a Choice?” 2016) cita Jamil Zaki, uno scienziato sociale di Stanford, una persona empatica può “prendere su di sè stati sensoriali, motori, viscerali e affettivi [negativi]” di un altro. Vale a dire che, per quanto ammirevoli siano i loro sforzi, prendersi cura profondamente di quelli con cui si lavora può portare a ripercussioni che nessuno avrebbe mai desiderato.
Shallcross (2013) discute come Carl Rogers, il creatore dell'approccio alla terapia centrata sulla persona, ha postulato che i clienti che percepiscono il loro terapeuta come empatico sono anche quelli che mostrano risultati migliori legati all'autostima positiva. Eppure la prontezza di questi terapeuti a farsi emotivamente disponibili è esattamente ciò che a volte può minacciare la loro capacità di sostenere questa risorsa terapeutica critica. E questo è il motivo per cui non solo i terapeuti, ma tutti quelli che sono in una professione di aiuto /guarigione devono dare alla cura di sé la stessa priorità con cui si prendono cura degli altri.
In caso contrario, dopo aver raggiunto i limiti della loro empatia, le loro fatiche emotive possono finire per renderli sintomatici, vittime di quello che è stato chiamato 'trauma secondario'. Come hanno osservato molti autori, sulla base del singolo individuo e del grado in cui ha tirato le sue risorse psicologiche, questo stato angosciante può manifestarsi non solo come stanchezza o spossatezza, ma anche come apatia, paralisi, distacco e spersonalizzazione, ansia, dolore, ritiro sociale, senso di colpa, rabbia e irritabilità, mal di testa, nausea e perdita di appetito, perdita o aumento di peso, vertigini, insonnia, immagini intrusive e flashback, e anche un disgusto di sé o disprezzo che equivale a depressione seria.
Combattere la fatica della compassione: suggerimenti per auto-cura
Per ridurre le probabilità che i caregiver in genere diventino così sovraesposti emotivamente da non riuscire più a funzionare in modo competente, o soddisfatto, nei loro ruoli scelti, ecco una selezione di metodi proattivi e reattivi di cura di sé, come suggerito da vari autori:
- Respira. Per sentirti più calmo, inducendo la risposta di rilassamento, impegnati in una respirazione profonda, lenta e costante, che attiverà il sistema nervoso parasimpatico che mitiga lo stress.
- Senti il tuo corpo. Quando sei in presenza di qualcuno che esprime emozioni forti, proteggiti dal contagio emotivo al quale la tua empatia ti rende vulnerabile, percependo i tuoi piedi sul pavimento e muovendo le dita dei piedi. (Questa tecnica può essere vista come uscire dai panni di un altro e rientrare nei propri). Se sei in piedi, piega le ginocchia leggermente; se sei seduto, senti il tuo fondo schiena sulla sedia. Sii consapevole (senza esserne preso) di tutte le tue sensazioni corporee.
- Fissa i limiti dell'esposizione a informazioni sconvolgenti. Per quanto fattibile, monitora attentamente quanto tempo e attenzione dai a stimoli angoscianti. (Tara Well, 2017)
- Riduci al massimo i carichi di lavoro stressanti che ti stanno facendo sentire sopraffatto.
- Fai pause/vacanze regolari. E se questo non è sostenibile, pratica una qualche forma di visualizzazione mentale, in modo che (almeno nella fantasia) tu possa ritirarti nel tuo prato privato pieno di fiori, nella spiaggia isolata, o in montagna o nella nuvola su nel cielo.
- Medita, per assimilare e integrare meglio le tue emozioni, così come per distanziarti da loro.
- Tieni un diario. Sfoga, ed elabora più profondamente, qualsiasi cosa potrebbe preoccuparti o agitarti.
- Fai esercizio regolare per rimanere in buona salute, ripristinare la tua energia, e alterare positivamente la tua biochimica emotiva.
- Parla con un amico personale fidato di ciò che ti sta angosciando o cerca la terapia quando riconosci che il tuo lavoro (sia incaricato che volontario) sta sollevando questioni personali che, irrisolte, richiedono assistenza professionale.
- Assicurati di avere una dieta sana, una che è veramente nutriente e promuove resistenza e vitalità.
- Raggiungi gruppi o reti di supporto.
- Genera una serie di strategie di coping personalizzate sulle tue esigenze individuali e predilezioni (ad esempio, escursioni, yoga, musica, preghiera o qualsiasi pratica spirituale che può aiutarti a restare “equilibrato” e a ripristinare l'equilibrio psicologico).
- Dedica più tempo agli hobby che ti piacciono, che possono distogliere l'attenzione dai fattori di stress in atto sul posto di lavoro.
- Fai qualsiasi cosa necessaria per dormire a sufficienza e in modo ristorante.
- Anche se può sembrare cinico, è prudente non permettere che la tua empatia fugga con te, o meglio, da te. Come osservano S.D. Hodges e K. J. K. Klein della University of Oregon: “Regolando l'esposizione e lo sforzo, le persone possono in una certa misura regolare la quantità di empatia che sentono e, a sua volta, controllare i costi che ne derivano ... Può essere più nobile essere costantemente empatici, ma è probabilmente più adattabile essere variabilmente empatici” (Regulating the Costs of Empathy: The Price of Being Human, 2001).
Quindi, per concludere, per prendersi cura meglio degli altri, ci si deve assicurare di prendere la migliore cura possibile di se stessi.
Fonte: Leon F. Seltzer PhD (psicologo clinico) in Psychology Today (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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