I ricercatori di neuroscienze del Cedars-Sinai hanno scoperto [anche loro] che l'Alzheimer influisce sulla retina, sul retro dell'occhio, proprio come colpisce il cervello. Lo studio ha anche rivelato che una scansione oculare investigativa e non invasiva, potrebbe rilevare i segni chiave della malattia anni prima che i pazienti ne sperimentino i sintomi.
Attraverso la scansione oculare ad alta definizione, sviluppata appositamente per lo studio, i ricercatori hanno scoperto i principali segnali di avvertimento dell'Alzheimer: i depositi di amiloide-beta, un accumulo di proteine tossiche. I risultati rappresentano un importante progresso per individuare anni prima le persone che hanno un rischio più elevato della condizione debilitativa.
Lo studio, appena pubblicato su JCI Insight, arriva nel bel mezzo di un forte aumento del numero di persone affette dalla malattia.
"I risultati suggeriscono che la retina potrebbe essere una fonte affidabile per la diagnosi di Alzheimer", ha dichiarato l'autore senior dello studio, Maya Koronyo-Hamaoui PhD, ricercatore e professore associato nei dipartimenti di Neurochirurgia e Scienze Biomediche del Cedars- Sinai. "Uno dei maggiori vantaggi dell'analisi della retina è la ripetibilità, che ci permette di monitorare i pazienti e, potenzialmente, la progressione della loro malattia".
Yosef Koronyo, associato di ricerca nel Dipartimento di Neurochirurgia e primo autore dello studio, ha affermato che un altro risultato fondamentale del nuovo studio è la scoperta delle placche amiloidi nelle regioni periferiche precedentemente trascurate della retina. Ha osservato che la quantità di placca nella retina è correlata con la quantità di placca in aree specifiche del cervello.
"Ora sappiamo esattamente dove cercare per trovare i segni dell'Alzheimer il più presto possibile", ha detto Koronyo.
Keith L. Black, MD, cattedra del Dipartimento di Neurochirurgia al Cedars-Sinai e direttore dell'Istituto Neurochirurgico Maxine Dunitz, altro primo autore dello studio, ha detto che i risultati offrono speranza per la diagnosi precoce, quando l'intervento potrebbe essere più efficace.
"La nostra speranza è che alla fine la scansione investigativa degli occhi possa essere usata come dispositivo selettivo per individuare la malattia sufficientemente presto da intervenire e cambiare il corso del disturbo, con farmaci e cambiamenti nello stile di vita", ha detto Black.
Per decenni, l'unico modo per diagnosticare ufficialmente la condizione debilitante è stato osservare e analizzare il cervello del paziente dopo la sua morte. Negli ultimi anni, per dimostrare la malattia, i medici si sono basati sulle scansioni di tomografia a positroni (PET) del cervello delle persone vive, ma la tecnologia è costosa e invasiva, richiedendo che il paziente riceva iniezioni di traccianti radioattivi.
Nel tentativo di trovare una tecnica più economica e meno invasiva, il team di ricerca del Cedars-Sinai ha collaborato con investigatori della NeuroVision Imaging, l'Organizzazione per la Ricerca Scientifica e Industriale del Commonwealth, l'Università della Southern California e l'UCLA per traslare sugli umani il loro approccio non invasivo di screening degli occhi.
I risultati pubblicati sono basati su una sperimentazione clinica condotta su 16 pazienti affetti da Alzheimer che hanno bevuto una soluzione che include la curcumina, una componente naturale della spezia curcuma. La curcumina induce la placca amiloide nella retina a "brillare" e ad essere rilevata dalla scansione. I pazienti sono stati quindi confrontati con un gruppo di individui più giovani e cognitivamente normali.
Fonte: Cedars-Sinai Medical Center via EurekAlert! (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
Riferimenti: Yosef Koronyo, David Biggs, Ernesto Barron, David S. Boyer, Joel A. Pearlman, William J. Au, Shawn J. Kile, Austin Blanco, Dieu-Trang Fuchs, Adeel Ashfaq, Sally Frautschy, Gregory M. Cole, Carol A. Miller, David R. Hinton, Steven R. Verdooner, Keith L. Black, Maya Koronyo-Hamaoui. Retinal amyloid pathology and proof-of-concept imaging trial in Alzheimer’s disease. JCI Insight, 2017; 2 (16) DOI: 10.1172/jci.insight.93621
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