Con la rapida crescita degli anziani tra la popolazione mondiale nei prossimi anni, l'Alzheimer e le altre forme di demenza diventeranno un disastro sanitario.
Evelyn C. Granieri è un medico raro nel 21° secolo: lei fa ancora visite a domicilio. In un caldo Giovedi mattina verso la fine di agosto, il geriatra di New York, con un abito bianco fatto su misura e tacchi alti, ha suonato il campanello in un condominio di sette piani in mattoni rossi nella sezione Riverdale del Bronx ed è stata fatta entrare.
"Sei bellissima!" esclamò la dottoressa, salutando la sua paziente, una donna di 99 anni con i capelli bianchi e un sorriso ironico, nella sala da pranzo del suo appartamento. In una conversazione durata un'ora, la signora K (come la chiameremo) ha ricordato, con dettagli toccanti e, a volte maliziosi, dalla crescita in Polonia, dove i soldati a cavallo hanno portato via il fratello, all'arrivo in America su una nave e al lavoro nel negozio di alimentari dei suoi genitori nel Queens, e al suo occuparsi dei colleghi maschi nel settore immobiliare quando erano "freschi" dell'attività. Ma quando la Granieri ha chiesto quanti anni aveva quando si è sposata, la signora K è sembrata confusa.
"Non riesco a ricordare", disse dopo una pausa. Una nube le passò sul viso. "Ero sposata? Con chi?". Una fotografia incorniciata su un tavolo vicino immortalava il suo 50° anniversario di matrimonio. Ironica e divertente, con la personalità intatta anche se la memoria si stava deteriorando, la signora K è uno dei più di cinque milioni di americani con demenza.
Lontani dai centri di ricerca luccicanti in cui gli scienziati analizzano i sottili cambiamenti biochimici associati all'Alzheimer e alle altre forme della malattia, i medici come la Granieri, capo della Divisione di Medicina Geriatrica e dell'Invecchiamento al Medical Center della Columbia University, si confrontano con la sua realtà devastante tutti i giorni. E, spesso, parlano con i famigliari dei pazienti. Dopo che la Granieri e due stagisti avevano sondato la memoria della signora K parlando e ne avevano misurato la pressione sanguigna, ha chiamato una nipote da Manhattan per vedere come stava andando la zia.
Quasi tutti i pazienti di demenza hanno famigliari preoccupati rannicchiati dietro, e quasi ogni storia di demenza comprende un momento in cui i propri cari implorano il medico per qualcosa (qualsiasi medicinale, ogni intervento, qualsiasi cosa) che prevenga un inesorabile processo che elimina l'identità, la personalità, e in ultima analisi la capacità di base di pensare.
Purtroppo, Evelyn Granieri è la persona sbagliata alla quale chiederlo. Nel 2010 ha partecipato a un gruppo di esperti ad alto livello che ha valutato per il National Institutes of Health ogni possibile intervento per la demenza, dai costosi farmaci inibitori della colinesterasi agli esercizi cognitivi, come le parole crociate; non ha trovato alcuna prova che uno qualsiasi degli interventi possa impedire l'assalto dell'Alzheimer. Lei può spiegare, con immensa compassione, ma altrettanto immensa convinzione, la realtà, per ora e per il futuro immediato: "Non c'è proprio niente". La demenza è una malattia cronica, progressiva, terminale, dice. "Non si può stare meglio, mai".
Queste conversazioni sono sempre state difficili sia per i medici che per le famiglie, ma forse mai così tanto come l'anno scorso, quando i rapporti pubblicati sulla ricerca sulla demenza sono rimbalzati tra ottimismo e depressione. Nell'autunno del 2011, gli analisti finanziari stavano prevedendo un mercato globale vertiginoso di Alzheimer del valore di 14 miliardi di dollari all'anno entro il 2020 e vaneggiavano di una nuova generazione di farmaci noti come anticorpi monoclonali che erano in avanzata sperimentazione umana. Un anno dopo, la prospettiva per quei farmaci non sembrava più così positiva.
Lo scorso agosto, i giganti farmaceutici Pfizer e Johnson & Johnson hanno sospeso avanzati studi clinici di uno degli anticorpi monoclonali, perché non ha mostrato alcun effetto nei pazienti con Alzheimer lieve / moderato. Poche settimane più tardi, un altro leader nella produzione farmaceutica, Eli Lilly, ha annunciato i risultati inconcludenti per un farmaco monoclonale che era anch'esso testato contro i depositi di proteine chiamati placche amiloidi che sono presenti di solito nel cervello dei malati di Alzheimer. I risultati sconfortanti hanno spinto alcuni critici a scrivere epitaffi sull'ipotesi prevalente sulla malattia che afferma che questi depositi di amiloide sono la causa del deterioramento cognitivo. "Il campo è in un una posizione precaria in questo momento", dice Barry D. Greenberg, direttore della strategia della Toronto Dementia Research Alliance, "perché decine di miliardi di dollari sono stati investiti nello sviluppo di nuovi trattamenti, e niente, non un singolo agente modificante la malattia è stato identificato".
La Granieri parte spesso per le chiamate dal suo ufficio al secondo piano dell'Allen Hospital, letteralmente l'ultimo edificio di Manhattan, sulla punta settentrionale di Broadway. Può sembrare un avamposto fuori mano nella battaglia della medicina contro la demenza, ma in realtà si trova sul punto centrale dell'incombente catastrofe medica e sociale. Il bacino di utenza dell'ospedale comprende l'Upper Manhattan e parte del Bronx, una delle tre maggiori concentrazioni di strutture di assistenza di tutti gli Stati Uniti, secondo la Granieri. "Qui siamo seduti proprio sull'epicentro", dice.
L'epicentro è un luogo controverso attualmente. I medici in prima linea come la Granieri sono sempre più frustrati dalla ristrettezza della ricerca sulla demenza. Nei pazienti che trattano tutti i giorni, vedono una malattia complicata e insidiosa, spesso con cause multiple e distinzioni diagnostiche fumose. Al contrario, vedono enti di ricerca focalizzati su diverse ipotesi preferite, e vedono una industria farmaceutica che ha tratto profitto profumatamente dai trattamenti costosi, ed efficaci solo marginalmente, richiesti dalle famiglie disperate.
Ricercatori accademici e farmaceutici, nel frattempo, continuano a buttare soldi sul problema demenza, ma alla fine, insistono, con un migliore obiettivo e strategie di trattamento molto più avvedute. Hanno iniziato ad assemblare un elenco di marcatori diagnostici che ritengono affidabili nell'indicare i primi segni dell'Alzheimer da 10 a 15 anni prima della comparsa dei sintomi, e si stanno attrezzando per testare nuovi farmaci che possono essere somministrati ai pazienti sani, nel tentativo per bloccare l'accumulo di amiloide molto prima dell'inizio della demenza.
In effetti, a sentire come la raccontano i ricercatori, gli esperimenti clinici falliti questa estate, molto pubblicizzati, sono già storia antica. Stanno seguendo finalmente il giusto tipo di scienza e sperano di avere il giusto tipo di risposte, le cui prime avvisaglie potranno apparire nei prossimi anni. Come sanno la Granieri e gli altri medici che trattano pazienti con demenza, la posta in gioco non potrebbe essere più alta.
Quando ha saputo di avere l'Alzheimer nel 1995, William Utermohlen, un artista americano residente a Londra, ha subito iniziato a lavorare su una serie ambiziosa di autoritratti. La serie di lavori risultante funge da registrazione personale artistica unica e cartella clinica della lotta di un uomo con la demenza. Galerie Beckel Odille Boïcos |
Connessioni e grumi
Nell'ottobre 1986, un anno dopo che sua nonna Sadie era morta di demenza in una casa di cura di New York City, Barry Greenberg aveva clonato un gene che pensava sarebbe stato fondamentale nella lotta contro l'Alzheimer. Da quando il medico tedesco Alois Alzheimer descrisse per primo le caratteristiche patologiche della malattia omonima nel 1906, gli scienziati si sono concentrati su due caratteristiche fisiologiche importanti che affliggono il cervello dei pazienti di demenza: le placche gommose di beta amiloide, che si formano al di fuori delle cellule cerebrali, e i grovigli pelosi di proteine all'interno dei neuroni (questi grovigli sono ormai noti per essere versioni deformi di una normale proteina chiamata tau).
Greenberg, che allora lavorava in una neonata azienda della West Coast, chiamata California Biotechnology, aveva trovato il gene della proteina precursore dell'amiloide, che dice al corpo come produrre la proteina che finisce per diventare placca amiloide. Ha chiamato emozionato il padre con la buona notizia, e il padre rispose: "E' meraviglioso, figlio. Ora cosa resta da fare?".
Un quarto di secolo più tardi, dopo visite a cinque società farmaceutiche e innumerevoli colpi di scena nella saga della ricerca, Greenberg può raccontare l'aneddoto con un sorriso, ma la storia più completa non è cosa da ridere. Ha visto questo disastro medico emergente come ricercatore al banco, come interno dell'industria farmaceutica, e ora come coordinatore della ricerca clinica e dello sviluppo di farmaci per un'alleanza di ospedali e cliniche della memoria canadesi associate all'Università di Toronto, che servono circa 7.000 pazienti con demenza all'anno. In un recente discorso a un pubblico laico alla Prince Edward Island, ha parlato della malattia di sua nonna e poi ha calato il colpo: "La prospettiva dell'incombente disastro socio-sanitario", ha detto, "é oltre qualsiasi problema affrontato durante tutta la storia dell'umanità".
L'ultima analisi demografica mondiale, un rapporto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità emesso all'inizio di quest'anno, dipinge le dimensioni di quella catastrofe rallentata, in pochi tratti. Si stima che circa 36 milioni di persone in tutto il mondo soffrono di demenza, gli esperti prevedono che il numero raddoppierà, a circa 70 milioni entro il 2030 e triplicherà entro il 2050. (Cina, India e America Latina, in particolare si troveranno di fronte scoraggianti crisi medico-economiche).
Dal momento che la prevalenza della malattia raddoppia ogni cinque anni di incremento dopo i 65 anni, le proiezioni per il 2050 portano a due miliardi il numero di persone (oltre i 65 anni) a rischio di demenza nel mondo. Il calcolo è tanto triste quanto semplice: visto che sempre più persone vivono più a lungo, molti di più scivoleranno nella demenza. L'assistenza per i pazienti attualmente costa 100 miliardi di dollari all'anno negli Stati Uniti, la previsione per i prossimi 40 anni é di 20 miliardi di dollari; per il 2050, il costo annuale previsto per la società USA sarà di 1.000 miliardi di dollari l'anno.
Una prospettiva che fa ancora più riflettere sul problema viene da un piccolo studio pilota inedito che la Granieri e i suoi colleghi della Columbia hanno recentemente avviato. Hanno effettuato la valutazione cognitiva standard di ogni persona di 70 anni o più, ricoverata all'ospedale Allen, per qualsiasi motivo: problemi di cuore, dolore, diabete, difficoltà respiratorie. I risultati li hanno storditi: "In questo ospedale, tra i pazienti di oltre 70 anni, il 90 per cento ha deficit cognitivo di qualche tipo, molto di più di quanto ci aspettassimo", dice.
Non solo la demenza é dolorosamente diffusa, ma la complessa sovrapposizione tra sintomi e possibili cause mette di fronte un problema più ampio e più complesso del curare semplicemente l'Alzheimer. La realtà emergente, che è diventata sempre più evidente con il miglioramento delle scansioni del cervello, è che la maggior parte dei casi tra gli anziani sono le cosiddette "demenze miste"; il decadimento cognitivo è dovuto a una combinazione di problemi vascolari, come ad esempio mini-ictus in parti distinte del cervello, con il modello più classico di Alzheimer con placche amiloidi. Studi internazionali su larga scala negli ultimi tre anni hanno mostrato, secondo una sintesi scientifica recente, che le forme di demenza causate da lesioni dei vasi sanguigni nel cervello, tra cui la demenza vascolare e la demenza mista, "costituiscono insieme le forme più comuni di demenza visibili durante l'autopsia negli studi su base comunitaria".
Sharon Brangman, medico che ha concluso un mandato di presidente del consiglio di amministrazione della American Geriatrics Society all'inizio di quest'anno, sottolinea il messaggio che l'Alzheimer in particolare, e la demenza in generale, è molto più complesso di quanto ha suggerito la ricerca specializzata degli ultimi 20 anni. "Quando hai perso qualcosa, e hai cercato in tutti i luoghi ovvi e ancora non l'hai trovato, è necessario iniziare a cercare in altri posti", dice. "Non tutti quelli con Alzheimer si presentano clinicamente nello stesso modo, e ci sono più demenze oltre l'Alzheimer. Abbiamo una vasta categoria di malattie in cui le persone possono cascare da molteplici percorsi. Ma stiamo attaccando la demenza ormai da un unico, stretto punto di ingresso. E' più complicato di così. In questo momento, abbiamo un approccio uno-vale-per-tutti alla demenza".
Al fine di pervenire a farmaci più efficaci, gli scienziati hanno bisogno di capire esattamente come si sviluppa ogni tipo di demenza e come attaccare quel processo specifico della malattia. Gran parte della ricerca si è finora concentrata sull'Alzheimer. Eppure rimane confusa la biologia di base, anche di quella forma molto ben studiata della demenza. Le placche amiloidi sono il fattore patologico chiave, come suggerisce un grande corpo di ricerca, o lo sono i boschetti di proteine aberranti noti come grovigli tau, che compaiono nei pazienti con demenza dopo le placche? Se l'amiloide porta ai grovigli tau, come sono collegati? O, come suggerisce un'ipotesi alternativa, la demenza è legata in qualche modo all'elaborazione ridotta dello zucchero nel sangue? (Questa possibilità è stata acquisita dalla recente decisione del NIH di sostenere una sperimentazione clinica dell'Università di Washington su uno spray nasale di insulina). O la vera causa dell'Alzheimer non ha qualcosa a che fare con uno squilibrio degli ioni metallici nelle cellule del cervello, che anima l'idea di avanzati studi clinici da parte di una società australiana biotech?
La coesistenza di così tante ipotesi suggerisce che non è ancora emersa né una prova chiara né un consenso su una teoria della malattia. "Io penso che si debba continuare a guardare a queste ipotesi", dice la Granieri, "ma sono ipotesi, e [i ricercatori] devono essere sinceri su questo".
1° grafico: Numero attuale e previsto di Americani con Alzheimer oltre i 65 anni. 2° dato: Persone con demenza nel mondo. 3° dato: % di americani con demenza oltre i 65 anni. Fonte: Alzheimer's Association e Organizzazione Mondiale della Sanità |
Topi con demenza
Un pomeriggio recente, nel 12° piano appena rinnovato del complesso di ricerca del College di Medicina e Chirurgia della Columbia University, Karen Duff, ricercatrice di Alzheimer ha ispezionato diversi topi anziani seduti in gabbia su uno scaffale nel suo laboratorio. Si trattava, nel gergo di laboratorio, di topi tau. Erano stati riprogettati geneticamente per produrre proteina tau umana anomala in una parte molto specifica del cervello, lo stesso piccolo luogo in cui le autopsie hanno dimostrato che appare per la prima volta nel cervello umano. Un topo, in particolare, si distingueva per il suo pelo arruffato, ispido e marrone.
"Questo potrebbe essere un po' demente", ha constatato la Duff prosaicamente. "E' un po' meno curato, e uno dei primi segni della demenza è un pelo più ruvido". Se questi topi imitassero il modello di patologia osservata negli uomini con demenza, ha aggiunto la Duff, la proteina deforme "si sarebbe diffusa in aree del cervello colpite dall'Alzheimer". La conferma è arrivata pochi giorni dopo, quando i tecnici hanno sacrificato gli animali e mappato i pezzetti aggrovigliati di tau malformata che si erano diffusi in tutto il cervello. Sono questi grovigli, secondo la Duff, che alla fine uccidono le cellule che conferiscono la memoria, la percezione, la cognizione.
I topi di laboratorio sulla mensola della Duff e i loro confratelli sperimentali hanno introdotto una nuova e sorprendente piega nella patologia dell'Alzheimer. La Duff e i suoi colleghi hanno condotto esperimenti che mostrano che le proteine tau deformi, individuate inizialmente nella parte del cervello dove in genere si vede partire l'Alzheimer (la corteccia entorinale), in qualche modo sono in grado di diffondersi nei circuiti nervosi e viaggiano attraverso le sinapsi verso altre parti del cervello che sono ritenute da tempo coinvolte nella demenza, compreso l'ippocampo. Con la diffusione attraverso il cervello, queste proteine anomale tau "usurpano" e corrompono le proteine tau normali nelle cellule malate, inducendo i grovigli letali e uccidendo i neuroni.
La buona notizia è che questo meccanismo offre nuove opportunità di trattamento: attaccare la tau anomala quando salta tra le cellule. Il gruppo della Columbia sta già conducendo esperimenti su animali di un anticorpo monoclonale studiato per intercettare la tau precisamente in questo punto vulnerabile di passaggio, e la Duff dice che le aziende farmaceutiche hanno mostrato un notevole interesse nel modello.
Ma le nuove scoperte sono anche un forte richiamo ai ricercatori su quanto ci sia ancora bisogno di conoscere sull'Alzheimer in particolare e sulla demenza in generale. La letteratura scientifica descrive ora l'amiloide come necessario, ma non sufficiente, a spiegare i sintomi di Alzheimer, eppure nonostante intense ricerche, non c'è accordo generale sul meccanismo che collega le due caratteristiche che segnalano un cervello alle prese con la malattia. Gli scienziati ancora non sanno perché le placche amiloidi precedono i grovigli di tau da 10 a 20 anni e non sanno come sono collegate le due patologie. "Sappiamo che la proteina amiloide si accumula, ma c'é molto dibattito se è l'uovo o la gallina, se questo è l'innesco o il risultato della malattia", spiega Brangman.
Anche dopo decenni di discussione sul ruolo dell'amiloide nell'Alzheimer, i ricercatori ammettono, non è stata adeguatamente testata l'ipotesi che queste placche siano la chiave della malattia. "Non abbiamo testato i pazienti giusti al momento giusto con gli agenti giusti", afferma Greenberg. "La realtà è che non l'abbiamo ancora fatto. Ma il settore sa cosa fare e lo sta facendo ora". Infatti, diversi studi clinici ambiziosi (Greenberg li considera le prove più importanti nella storia delle scoperte sui farmaci di Alzheimer) sono pronti ad essere lanciati nei prossimi mesi, ed i risultati indirizzeranno la ricerca sulla demenza negli anni a venire.
Se questi cosiddetti studi di prevenzione avranno successo, porteranno con loro la speranza che può essere modificato il corso della demenza, solitamente inevitabile. Se non riescono a modificare il corso della malattia, tuttavia, le conseguenze saranno quelle che i ricercatori come Greenberg e Duff chiamano "devastanti" e "orrendi".
Test vero
Data l'entità e l'urgenza del problema, non c'è da meravigliarsi che, annunciando nuovi fondi al NIH lo scorso febbraio, Kathleen Sebelius, ministro della sanità USA, abbia detto ai giornalisti: "Non possiamo più attendere di agire". Eppure è chiaro a molti esperti che probabilmente attenderà un farmaco efficace per l'Alzheimer per almeno 10/15 anni.
La sfida di trovare un trattamento che cambi il corso della demenza è scoraggiante proprio perché il processo di degradazione neurale procede invisibile per tanti anni e inizia così presto. Quanto presto? Lo scorso luglio, la Dominantly Inherited Alzheimer's Network, una rete di importanti centri accademici con base alla Washington University di St. Louis, ha pubblicato i risultati sorprendenti che i cambiamenti rilevabili nella chimica amiloide nei pazienti con una forma genetica dell'Alzheimer possono essere visualizzati nel fluido cerebro-spinale di una persona fino a 25 anni prima della comparsa dei sintomi di Alzheimer. Nel momento in cui i malati di Alzheimer si presentano nello studio del neurologo, con segni di demenza lieve o moderata, è già troppo tardi.
Perciò, se l'ipotesi amiloide per l'Alzheimer è corretta, i ricercatori hanno bisogno di trovare e curare i pazienti un decennio o più prima che appaiono i primi segni di deterioramento cognitivo. Hanno bisogno di un farmaco che attraversa la barriera ematoencefalica per interrompere l'accumulo di amiloide. E hanno bisogno di strumenti diagnostici (l'equivalente cognitivo e neurale del test del glucosio per i diabetici) per misurare le variazioni dell'amiloide e degli altri biomarcatori e determinare se le terapie funzionano. (Questi stessi marcatori diagnostici potrebbero essere utilizzati anche per identificare i pazienti a rischio di Alzheimer in grado di beneficiare di un trattamento preventivo). Nonostante siano avvenuti progressi nella ricerca di questi marcatori, la loro affidabilità è ancora incerta. La Food and Drug Administration potrebbe accelerare l'approvazione dei farmaci sulla base del loro miglioramento, dice Sam Gandy, direttore del Mount Sinai Center for Cognitive Health di New York.
Ma tutti staranno ancora "con il fiato sospeso" fino a quando i pazienti sono "ben oltre l'età in cui ci si aspetta di essere a rischio di diventare dementi". Il gruppo di ricercatori con base alla Washington University ha messo insieme un insieme promettente di strumenti per aiutarli a rilevare lo stato di avanzamento della malattia: scansione cerebrale dei depositi di amiloide, analisi di liquido cerebro-spinale, e test cognitivi. Ma chi dovrebbe essere il soggetti di prova? Come si è visto, ci sono diverse forme genetiche rare dell'Alzheimer, che sono da tempo l'obiettivo di ricerca della rete. Le persone che ereditano mutazioni dominanti molto specifiche sono destinate a sviluppare l'Alzheimer in età relativamente precoce, e i ricercatori sono in grado di calcolare quando possono apparire i primi sintomi della malattia. La rete è ora nelle fasi finali della selezione di tre distinti agenti terapeutici che puntano l'amiloide, con l'intenzione di testarli in pazienti con forme genetiche del morbo.
Randall Bateman, medico e ricercatore dell'Università di Washington, dice che lo scopo dello studio è quello di trovare un farmaco che limita l'accumulo di amiloide nel cervello, così come i medici usano le statine per ridurre il rischio di ictus e di attacco di cuore abbassando i livelli di colesterolo. Bateman dice che il suo gruppo di ricerca spera di lanciare i test umani usando i biomarcatori entro l'inizio del 2013, lui e i suoi colleghi sperano di vedere la prova di effetti su questi marcatori dopo due o tre anni di trattamento, piuttosto che aspettare 10 o 15 anni, quando ci si aspetta di vedere comparire i sintomi della demenza.
L'altro esperimento sotto stretta sorveglianza sarà lanciato, con la benedizione e il finanziamento del NIH, dall'Istituto Banner di Alzheimer a Phoenix e dalla Genentech. La maggior parte dei pazienti in questo studio hanno anche una forma genetica della malattia. I membri di una famiglia allargata di circa 5.000 persone che vivono nella regione di Antioquia in Colombia hanno il rischio di una mutazione molto rara; i relativi portatori sviluppano invariabilmente una versione ad insorgenza precoce dell'Alzheimer. L'idea è quella di trattare circa 300 membri di questo gruppo con un farmaco sperimentale che attacca le placche amiloidi circa 15 anni prima che i sintomi insorgano.
Il farmaco, concesso in licenza da Genentech, è un anticorpo monoclonale che attacca l'amiloide, chiamato crenezumab. I medici ritengono che può tranquillamente essere iniettato a una dose più alta rispetto ad altri farmaci monoclonali. "Crediamo che la dose più elevata si tradurrà in una maggiore efficacia", dice Carole Ho, direttore medico del gruppo per sviluppi clinici iniziali della Genentech.
Somministrando presto questi farmaci ad una popolazione geneticamente suscettibile alla malattia, i ricercatori di Alzheimer ritengono di dare finalmente il tipo giusto di terapia ai pazienti giusti al momento giusto. E data la posta in gioco, i due studi di prevenzione hanno scatenato alte aspettative. "Questa sarà la prima vera prova sull'ipotesi amiloide", dice Barry Greenberg. "La strategia è sana. Quindi lasciamo che faccia il suo corso".
Anche se gli studi di prevenzione avranno successo, tuttavia, non c'è alcuna garanzia che questa versione di intervento precoce aiuterà nella maggior parte dei casi di demenza. I medici avvertono che queste rare forme della malattia, ad insorgenza precoce, basate su mutazioni, valgono al massimo per il 10 per cento di tutti i casi di Alzheimer. Come dice Evelyn Granieri, "questo potrebbe anche non essere l'Alzheimer che insorge nella maggior parte delle persone". Le forme genetiche della malattia sono simili nella patologia alle forme che presenta la maggior parte delle persone, dice invece la Ho.
Eppure, anche i risultati positivi raccolti dalle prime analisi ad interim di questi studi arriveranno troppo tardi per i milioni di persone che hanno già iniziato la lenta discesa nel declino cognitivo. "La realtà", dice la Granieri, "è che la maggior parte delle persone che sono intorno e senzienti ora, non ci saranno per la cura". Una ragione in più, secondo Greenberg, di adottare un "pensiero fondamentalmente diverso" nella ricerca sulla demenza. "Il sistema di assistenza sanitario sta andando verso la bancarotta entro il 2050 se non troviamo un modo per ritardare o trattare l'Alzheimer", dice, e crede che non avverrà senza una grande iniziativa pubblico-privata internazionale. "Il mercato competitivo", dice, "non è stato concepito per superare i problemi di questa portata".
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Pubblicato da Stephen S. Hall in Technology Review il 5 Ottobre 2012 - Traduzione di Franco Pellizzari..
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