Allo stato delle attuali conoscenze, la medicina non dispone di un trattamento che sia in grado di impedire il progredire della malattia e riportare il malato alla normalità. Esistono soltanto farmaci “sintomatici” che possono in parte migliorare la situazione esistente e rallentare la progressione della malattia. Tuttavia, è importante sottolineare che:
- questi farmaci sono da utilizzare nella prima fase della malattia, lieve e moderata (non nelle fasi avanzate);
- non funzionano in tutti i casi (ci sono malati che rispondono bene al trattamento, i “responders”, e altri che invece non hanno alcun beneficio, i “non-responders”) e non si sa in anticipo quali siano;
- possono avere effetti collaterali anche gravi (quindi la somministrazione di questi farmaci necessita della supervisione di un medico specialista).
E’ opportuno precisare inoltre che raramente i bisogni del paziente possono essere affrontati con la semplice somministrazione di un solo farmaco più o meno efficace e, al contrario, richiedono un approccio che può essere effettuato in vari modi che tenga conto del quadro clinico (caratterizzato non solo dalla presenza di sintomi cognitivi, ma anche di sintomi non cognitivi), dalla presenza di malattie precedenti o in atto (diabete, ipertensione, disturbi psichiatrici), delle ripercussioni sull’autonomia della persona e delle problematiche sociali e familiari. Distinguiamo i farmaci per la Malattia di Alzheimer e farmaci per i disturbi del comportamento.
Inibitori dell’acetilcolinesterasi (Donepezil, rivastigmina e galantamina): l’utilizzo di questi farmaci su basa sulla dimostrazione che nella malattia di Alzheimer vi è una cerenza a livello cerebrale una sostanza chimica chiamata acetilcolina, sostanza che è importante in particolare per la memoria. L’acetilcolina è un neurotrasmettitore che invia messaggi da una cellula all’altra e, dopo aver terminato il suo compito, viene distrutta in modo che non si accumuli tra le cellule.
Questi farmaci hanno lo scopo di mantenere la disponibilità di acetilcolina e possono compensare, ma non arrestare, la distruzione delle cellule cerebrali provocata dalla malattia. Possono migliorare alcuni sintomi cognitivi (quali memoria e attenzione) e comportamentali (quali apatia, agitazione e allucinazioni), ma questa loro capacità diminuisce con la progressione della malattia. Attualmente questi farmaci sono a carico del Servizio Sanitario Nazionale e sono dispensati presso le Unità di Valutazione Alzheimer (U.V.A.).
Memantina: nelle fasi più avanzate della malattia può essere indicata la memantina. Questo farmaco agisce con meccanismi diversi dai precedenti, compensando gli effetti tossici derivanti dall’eccessiva stimolazione delle cellule nervose causata da un’altra sostanza, il glutammato: esso ha un ruolo essenziale nell’apprendimento e nella memoria, ma quantità eccessive provocano la morte delle cellule nervose. La memantina può proteggere le cellule da questo eccesso. Si ritiene inoltre che il farmaco abbia un duplice effetto: sintomatico, migliorando in alcuni casi i sintomi cognitivi e comportamentali, e neuroprotettivo (funzione protettiva per le cellule del cervello, cioè i neuroni). Da aprile 2009 anche la memantina è a carico del Servizio Sanitario Nazionale ed è dispensato presso le U.V.A. Studi scientifici dimostrano l’efficacia della memantina anche in associazione con gli inibitori dell’acetilcolinesterasi.
Antiossidanti (Selegilina, Vitamina E, Gingko-Biloba): si sente spesso parlare, anche in relazione all’invecchiamento della pelle, dei radicali liberi. Cosa sono? La produzione di radicali liberi è un evento fisiologico che si verifica normalmente, tuttavia si ritiene che con il passare degli anni i radicali liberi si accumulerebbero e svolgerebbero una potente azione dannosa per il nostro organismo. In condizioni fisiologiche normali vi è uno stato di equilibrio tra la produzione da parte del nostro corpo di radicali liberi e la loro eliminazione da parte di specifici meccanismi propri dell’organismo. Quando invece prevale la produzione di radicali liberi, si viene a determinare un danno che a lungo andare procura una progressiva usura del corpo e della mente. Gli antiossidanti sono sostanze in grado di neutralizzare i radicali liberi e proteggere l'organismo dalla loro azione negativa. Le importanti proprietà di molti alimenti di origine vegetale (ad esempio mirtilli, cavoli, succo di uva e di pompelmo) sono legate proprio al loro prezioso contenuto in antiossidanti.
Si ritiene che farmaci con proprietà antiossidanti intervengano nei processi che caratterizzano l’invecchiamento. Il loro impiego contribuirebbe (il condizionale è d’obbligo perché gli studi che documentano questi effetti sono pochi e con risultati non sempre in accordo tra loro) a “rallentare” i meccanismi che portano alla perdita delle cellule cerebrali. Essi sono abitualmente ben tollerati e gli effetti collaterali sono rari, ma ci sono. Questi farmaci sembrano avere effetti principalmente sull’autonomia nello svolgimento delle attività quotidiane, non direttamente sulla memoria o sulle altre funzioni cognitive. Questi risultati che sembrano incoraggianti devono essere tuttavia confermati da altri studi prima di avere la certezza della loro reale efficacia. Un farmaco che ha ottenuto grande attenzione è il Ginkgo Biloba, un estratto dalle foglie di una pianta subtropicale ad azione neurotrofica, antiossidante e antinfiammatoria. Per quanto riguarda il gingko-biloba sono stati pubblicati alcuni studi che ne documentano un’efficacia, sia pur modesta, sulle funzioni cognitive e sul comportamento. Sono necessarie, però ulteriori ricerche per comprendere il suo meccanismo di funzionamento e va ricordato che anche questo trattamento non è esente da possibili effetti collaterali anche gravi (azione anticoagulante con aumentato rischio di emorragie).
Questi farmaci devono essere considerati solo dopo aver escluso eventuali fattori ambientali o altre situazioni disturbanti che possano causare i disturbi del comportamento, dell’umore (ad esempio apatia e depressione) e i sintomi psicotici (ad esempio deliri e allucinazioni). Inoltre, tutti questi farmaci possono avere notevoli effetti collaterali, motivo per cui viene effettuata un’accurata valutazione medica prima della somministrazione e necessitano di monitoraggio e supervisione da parte dello specialista che li prescrive. La somministrazione di tali farmaci, soprattutto in relazione al dosaggio e al tempo di somministrazione, non può e non deve essere una gestione “fai da te” del malato e dei suoi familiari. E’ importantissimo attenersi alle indicazioni del medico e informarlo tempestivamente dell’eventuale comparsa di effetti collaterali.
Antidepressivi (farmaci per trattare la depressione): Questi farmaci (ad esempio Sertralina, Citalopram Escitalopram) sono indicati nel trattamento della depressione e spesso aiutano a distinguere la depressione “vera” (che risponde al trattamento) da quella che potrebbe essere il primo sintomo della demenza (la cui risposta è assai più dubbia).
Ansiolitici e ipnotici (farmaci per trattare l’ansia e i disturbi del sonno): Sono farmaci (ad esempio Bromazepam, Alprazolam Metillorazepam) comunemente impiegati nella terapia dell’ansia e dell’insonnia, il cui uso tuttavia non è sempre raccomandabile nell’anziano per gli effetti potenzialmente dannosi sulla memoria e sull’equilibrio.
Antipsicotici (farmaci per trattare alcuni disturbi del comportamento, come i deliri e le allucinazioni): Si è soliti distinguere gli antipsicotici in quelli di vecchia generazione (il cui uso dovrebbe essere limitato a condizioni particolari di “emergenza” e comunque non protratto nel tempo) e quelli cosiddetti atipici, di nuova generazione. Questi ultimi (aripiprazolo, clozapina, olanzapina, quetiapina e risperidone) vengono impiegati nel trattamento dei disturbi comportamentali delle demenze, quali i deliri, le allucinazioni, l’aggressività, l’agitazione, l’insonnia. Rispetto ai farmaci antipsicotici di vecchia generazione, quelli atipici sono gravati da minori effetti collaterali, quali ad esempio sedazione e rallentamento motorio, è aumentato tuttavia il rischio cardiovascolare. Il Ministero della Salute ha recentemente avviato un piano di sorveglianza di tali farmaci (Piano terapeutico), nel sospetto che essi possano aumentare il rischio di problemi di natura cerebrovascolare.
I limiti del trattamento con i farmaci appena descritti hanno portato la ricerca a orientarsi verso approcci terapeutici alternativi che mirano alla prevenzione e alla cura più che al rallentamento dei sintomi caratteristici della malattia.
Recentemente, particolare attenzione è stata volta a una sostanza anomala (cioè irregolare, che non rispetta le regole) denominata beta-amiloide, che è stato dimostrata essere presente nel cervello dei pazienti con demenza di Alzheimer (sotto forma di placche). E’ quindi attualmente in corso la sperimentazione di un nuovo farmaco che potrebbe rallentare la progressione della malattia attraverso l’inibizione della sintesi della sostanza beta-amiloide.
Si sente spesso parlare anche di cellule staminali in relazione alle demenze e in generale ad altre malattie degenerative (ad esempio la sclerosi multipla). Cosa sono le cellule staminali? Sono cellule presenti in ogni organismo che si distinguono dalle altre in quanto sono cellule non differenziate (cioè non specializzate), nel senso che non hanno ancora una funzione ben precisa all’interno dell’organismo stesso. Alcuni studi condotti su topi di laboratorio (siamo quindi ancora all’inizio della sperimentazione!) hanno evidenziato che le cellule staminali iniettate nel cervello dell’animale agiscono come fertilizzante per il cervello. Le staminali aiutano quindi il cervello del topolino a creare nuove connessioni tra le cellule che lo compongono e a guarire quelle “ammalate”. Ma non tutto quello che fanno o che possono fare è poi così “miracoloso”, ci sono comunque dei limiti soprattutto per patologie come la demenza oltre ad essere degenerative, colpiscono più aree cerebrali e quindi un grandissimo numero di cellule cerebrali.
Sulla base della considerazione che molti pazienti affetti da demenza sono persone che hanno una storia di diabete, di ipertensione o di malattie cardiovascolari, un altro passo in avanti proviene da uno studio americano che avrebbe confermato che alcuni farmaci comunemente usati per trattare l’ipertensione e le malattie cardiache possono ridurre il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer e le altre forme di demenza. Si tratta ad oggi di risultati che, per quanto interessanti, andranno comunque confermati da ulteriori programmi di ricerca futuri.
Infine, un approccio terapeutico molto promettente è basato sullo sviluppo dei vaccini, che si sono dimostrati in grado di prevenire la formazione della sostanza beta-amiloide e la cui sperimentazione sui soggetti sani, inizialmente interrotta per il verificarsi di alcuni gravi effetti collaterali, è attualmente in fase di ripresa.
Concludendo, il quadro generale lascia prevedere la possibilità di individuare nuovi farmaci per la malattia di Alzheimer, potenzialmente diretti alle cause invece che ai sintomi. D’altra parte occorre anche sottolineare che le nuove terapie hanno tempi di sviluppo lunghi e quindi nel breve e nel medio termine non è possibile prevedere di sostituire i farmaci attualmente impiegati.
Tra i fattori protettivi per la demenza vi è il livello di istruzione e l’elevato livello culturale, che in termini preventivi hanno la funzione di mantenere attive e allenate per il maggior tempo possibile le funzioni cognitive. Negli ultimi anni la ricerca scientifica si sta concentrando su aspetti che non coinvolgono necessariamente solo geni, proteine, sostanze prodotte dal nostro cervello che permettono una comunicazione efficace tra neuroni, ma anche su quella che è chiamata riserva cognitiva.
La riserva cognitiva è il prodotto di più fattori tra cui il quoziente intellettivo (IQ) pre-morboso (cioè prima dell’insorgere della malattia), la scolarità (anni di scuola o titolo di studio), l’attività lavorativa (chiaramente ci sono lavori che richiedono differente impegno cognitivo), il reddito, il prestigio sociale eccetera. Inoltre sono valutate le attività praticate durante il tempo libero e la frequenza con cui si praticano. Alcune attività sportive, domestiche o sociali possono essere considerate cognitivamente stimolanti, come ad esempio suonare uno strumento, dipingere, andare al cinema o a teatro, partecipare a mostre, concerti, conferenze, e ancora, viaggiare, leggere libri, svolgere attività di volontariato, utilizzare nuove tecnologie, e tutte quelle attività che impegnano il nostro cervello.
Quello che emerge da numerosi studi è una buona riserva cognitiva sembra permettere una migliore capacità di far fronte al danno cerebrale che normalmente si verifica nelle demenze, in particolare nella Malattia di Alzheimer. Che cosa significa questo? Le persone con una buona riserva cognitiva sembrano sviluppare i sintomi della demenza più tardi, perché la riserva cognitiva fa sì che il danno cerebrale debba essere maggiore per produrre gli stessi sintomi.
La riserva cognitiva rappresenta la migliore strategia di cui oggi disponiamo per prevenire la demenza.
Fonte: Vedemecum 2010 dell'Associazione Alzheimer Riese, a cura di
Dr.ssa Daniela Bobbo, Dr.ssa Elena Mascalzoni
Si ringraziano per i preziosi consigli:
Dr.ssa Marzia Pelloia (Logopedista), Dr. Massimo Zanardo (Geriatra), Dr.ssa Emma Ziliotto (Medico di Medicina Generale).
Terence David John Pratchett, meglio conosciuto come Terry Pratchett (Beaconsfield, 28 aprile 1948), è uno scrittore e glottoteta britannico, autore di fantasy umoristico, celebre per la sua serie di romanzi ambientati nel Discworld.
Nell'agosto 2007, a Pratchett fu diagnosticato un piccolo ictus avvenuto nel 2004 o nel 2005, che si è ritenuto abbia danneggiato la parte destra del suo cervello.
L'11 dicembre 2007, Pratchett ha reso noto su internet che gli è stata fatta una nuova diagnosi di una forma molto rara di morbo di Alzheimer precoce, che "si trovava dietro l'ictus fantasma di quest'anno", secondo le sue parole. La forma della malattia si chiama atrofia corticale posteriore, per la quale delle aree della parte posteriore del cervello iniziano a ridursi di volume. Nel marzo 2008, Pratchett ha annunciato di donare un milione di dollari americani all'Alzheimer's Research Trust, dicendo di aver parlato con almeno tre persone sopravvissute al cancro al cervello, ma con nessun sopravvissuto all'Alzheimer, e che era stato scioccato dal "vedere che i finanziamenti per la ricerca sull'Alzheimer sono solamente il 3% rispetto a quelli per la ricerca sul cancro." La donazione di Pratchett ha ispirato una campagna su Internet in cui i fan sperano di "raddoppiarlo per Pratchett" (Match it for Pratchett), raccogliendo un ulteriore milione di dollari.
Fonte: Wikipedia
Puoi trovare lo stato attuale delle conoscenze sulla malattia, le possibili cause, le prospettive di trattamenti futuri
(tutto documentato da centinaia di riferimenti a studi) in questo documento redatto da ricercatori della
University of California di San Francisco e pubblicato sulla rivista Cell.