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L'Alzheimer descritto: la memoria svanisce, ma la vita va avanti

Ci fidiamo molto della memoria, forse troppo. Quando qualcuno riceve la diagnosi di Alzheimer, è facile trattarlo come una causa persa; perde ogni pretesa di essere razionale, di essere pienamente umano, e così si arriva a ignorare le sue richieste confuse e le sue esigenze sempre più assurde.


Il mio patrigno ha continuato a chiedere le chiavi della macchina che gli erano state ritirate quando era stato fermato mentre guidava dalla parte sbagliata della strada, mentre andava in un'altra provincia a prendere la figlia, che abitava dall'altra parte del paese e che non sarebbe stata nell'aeroporto, che peraltro il mio patrigno non riusciva più a trovare.


Perchè fare una discussione, anche solo per assecondarlo? Era chiaramente, clinicamente e pericolosamente andato, e io e mio fratello ci siamo trovati a riordinare il caos di una vita che era oramai perduta. La nostra compassione recede mentre la loro demenza progredisce. La memoria, crediamo, dà alla vita la sua struttura. Quando non ci riesce, è la fine dell'autonomia, non importa quanto rimane da mangiare, da dormire e da respirare.


Questo ha senso, almeno per quelli di noi che devono raccogliere i pezzi: quando qualcuno non riesce a ricordare quello che hai detto ieri, perché dovrebbero arrivare a dettare che cosa accadrà domani? Se questo ti suona indifferente, aspetta solo fino a quando ci arrivi.


E poi ho incontrato Jonathan Kozol e quindi devo riprendere le verità che ho appena espresso. Leggendo The Theft of Memory [Il furto della memoria], la tenera biografia sul suo prendersi cura di un padre con Alzheimer, sento di sbagliarmi, anche se solo per la facilità auto-referenziale con cui ho annullato il mio patrigno.


"Ho amato mio padre", dice Kozol, ex insegnante, che ha scritto in modo toccante sulle disparità razziali nel sistema della scuola pubblica americana. "Era una delle persone più interessanti che abbia mai conosciuto, e volevo conoscerlo come meglio potevo, fino alla fine".


Harry Kozol era un noto neurologo e psichiatra di Boston che ha diagnosticato gli inizi della sua stessa demenza quando aveva appena superato gli 80 anni. All'apice della carriera aveva trattato il drammaturgo Eugene O'Neill, interrogato la rapita-diventata-guerrigliera-urbana Patty Hearst come consulente tecnico e aveva sviluppato un rapporto clinico con il cosiddetto Strangolatore di Boston. Anche nel suo lungo declino (visse fino a 102 anni), ha avuto il tipo di stile e di portamento che polarizzava l'attenzione, inducendo suo figlio a mettere in discussione le reazioni convenzionali verso le persone affette da Alzheimer.


"Spero che le persone che scartano le vie potenziali di comunicazione tra se stessi ed i pazienti anziani con Alzheimer possano capire la sensazione che non deve essere un decennio grottesco", dice. "Può essere un'esperienza molto calda e gratificante, se si ha il tipo di vita in cui è possibile dedicare al paziente molto tempo e continuità". Come scrittore autonomo che viveva da solo, Kozol si concedeva il lusso del tempo e l'assenza di obblighi, o almeno così sembra dal mio punto di vista più conflittuale. Aveva anche risorse economiche per provvedere ai caregivers dedicati che hanno curato il padre in modo più pienamente umano rispetto alla norma della demenza.


Purtroppo, come riferisce Kozol, tutto questo fa la differenza. Se non guardi e ascolti, non sai cosa ti perdi. E più precisamente, cosa si perdono: anziani che continuano a rivangare frammenti del passato, anche dopo che noi decidiamo che la loro memoria è svanita. "La gente dice, dovresti pregare per loro che muoiano al più presto possibile", dice Kozol. "Non mi sono mai sentito così con mio padre. Volevo che vivesse abbastanza da provare tutti i piaceri della vita".


Harry Kozol ha mantenuto una vigilanza distaccata sulla propria demenza. Ha scritto appunti su se stesso in linguaggio medico che non avevano un senso completo, ma che davano prova del suo impegno come medico - e della sua frustrazione come paziente. "Anche quando non riusciva a esprimere quello che voleva dire con continuità, potevo cogliere in mezzo a tutte le sue parole quello che ho chiamato «vita sotto la vita»", dice Kozol. "C'erano tutte quelle idee, emozioni e ricordi amorfi, ma una parte di tutto ciò poteva essere portata in superficie ponendo la domanda giusta".


Kozol ha messo il padre in una casa di cura, quando è diventato sempre più disorientato all'età di 90 anni, dopo una caduta e un intervento all'anca. Ma sei anni dopo, ha fatto l'impensabile: ha portato Harry a casa nell'appartamento di Boston dove la moglie 98-enne era rimasta in felice indipendenza, a guardare le partite serali dei Red Sox in compagnia dei caregivers, indossando la maglia del team.


E' tipico dei malati di Alzheimer parcheggiati chiedere solo di tornare a casa. Noi li ignoriamo o rinviamo o ci adeguiamo fino a che non dimenticano e si arrendono all'inevitabile. Kozol ha ascoltato e obbedito, da buon figlio che era. Dove le persone con gli occhi ben aperti e pragmatici come me riconoscono che è solo una fase liquidatoria (la versione della demenza del bambino che manda lettere imploranti dal campo estivo), egli ha visto la forza vitale di auto-affermazione, il grido di ribellione che chiedeva la liberazione.


"Le persone mi hanno detto «Non sa quello che dice, non significa niente»", ricorda Kozol. "Come se io non dovessi agire su di esso, come se potessi ignorarlo. Ma non riuscivo a respingerlo". La casa che suo padre aveva lasciato non era la casa dove è tornato; era cambiato troppo nella sua mente per fargli recuperare la sua vecchia famigliarità. Si è seduto alla sua vecchia scrivania e ha scarabocchiato delle note che non avevano senso.


Ed è questo che mi fa pensare che ci sia inevitabilmente un elemento di fantasia nel modo in cui consideriamo le persone con Alzheimer: non si conosce in realtà, e quindi si fanno proiezioni da scampoli fragili di informazioni disponibili, e dai ricordi che rimangono dopo che la persona è scemata.


"Potremmo fare una riflessione malinconica qui", ammette Kozol, educatamente e con riluttanza. "Ma io posso giudicare solo dalle mie stesse percezioni e dagli altri che erano intorno a lui. Fino al suo ultimo anno, ha goduto di buon grado del piacere di essere vivo, condividendo calore e umorismo e allegria con la gente".


Come mostra The Theft of Memory, l'intensità tardiva della relazione di Alzheimer ha avuto un effetto liberatorio sul figlio di Harry Kozol, quasi come se fosse liberato dalla sua quasi prigionia. "All'inizio della vita, l'ho visto come un uomo affascinante", dice, "ma molto potente e molto autorevole e ciò mi intimidiva". Quando ha deciso di abbandonare Oxford, suo padre non poteva fare a meno di criticarlo. Più tardi, Jonathan si è coinvolto nel movimento per i diritti civili degli Stati Uniti, ha abbandonato il progetto di tornare a scuola e ha deciso invece di diventare un insegnante e attivista delle minoranze.


Ancora una volta, suo padre gli disse che era troppo rischioso, anche se nella sua vita professionale ha sempre parteggiato per i giovani pazienti che volevano abbandonare la rispettabilità che i genitori preoccupati avevano progettato per loro.


"Quindi per me è rimasto una figura autorevole per lungo tempo", dice Kozol. "E poi all'improvviso dopo essersi diagnosticato l'Alzheimer, l'ago della bilancia si è spostato. Ora ero il genitore e lui dipendeva di più da me. Per la prima volta, mi sono sentito veramente responsabile di un altro adulto. E sono arrivato a conoscere mio padre meglio di quanto lo avessi mai conosciuto prima".


Nella mia esperienza immediata dell'Alzheimer, questo non ha senso. E poi mi rendo conto di capire esattamente il paradosso di cui sta parlando Kozol. Mia madre ha avuto un ictus devastante ed era praticamente morta. In qualche modo è tornata qui, contro le migliori ipotesi dei suoi medici. Non riusciva a parlare. Era paralizzata in parte. Eppure ha gestito la vita del mio patrigno mentre scendeva verso la demenza.


Trasudava gioia pura che non avevo mai visto in lei prima. Mi ha costretto a trovare nuovi modi di comunicare che erano più intimi e intensi, nonostante fossero difficili e geniali. Mi sono sentito più vicino a lei dopo il suo ictus, il che mi ha preoccupato quando l'ho detto. Mi sgomenta sentire alcune persone discutere su di lei o trattarla come debole. Non era congedabile. Perché qualcuno dovrebbe pensare ciò di un altro essere umano?

 

 

 


Fonte: John Allemang in The Globe and Mail (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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