Nella nostra società ipercognitiva, la paura di dimenticare si è insinuata in profondità nella psiche. Mettere le chiavi della macchina nel posto sbagliato, una volta considerato mera distrazione, ora è un sintomo clinico. L'inettitudine tecnologica nel fiore dell'età adulta è attribuita al fallimento della memoria.
Il mero sospetto di perdere la memoria può avere conseguenze terribili in un'economia in cui i lavoratori precari di mezza età vengono regolarmente (e illegalmente) licenziati proprio a causa della loro età.
Questa epidemia di ansia che c'è in giro per la perdita di memoria è così forte che molti anziani cercano aiuto per quel tipo di dimenticanza di ogni giorno che una volta era considerato normale.
La maggiore consapevolezza pubblica dell'Alzheimer, lungi dal ridurre l'ignoranza e lo stigma intorno alla malattia, l'ha aumentata. Le persone con più di 55 anni hanno il terrore dell'Alzheimer, più di ogni altra malattia, secondo un'indagine del 2010 dalla Fondazione MetLife. Il fatto che solo 1 americano su 8 di più di 65 anni ha l'Alzheimer non riesce a rimanere impresso.
È così orribile la prospettiva della malattia da indurre qualcuno a prendere in considerazione il suicidio? Uno scrittore che conosco, la cui madre aveva l'Alzheimer, mi ha detto che sta facendo scorta di pillole. Un accademico mi ha detto di aver trovato qualcuno che lo aiuterà a morire "prima di perdere la mente". Gruppi di sostenitori, i produttori dei cosiddetti prodotti anti-invecchiamento e le notizie dei hanno, per motivi diversi, tendono a gonfiare il numero dei malati e gli orrori della patologia. Anche i medici sono stati complici: alcuni utilizzano il concetto di "deficit cognitivo" come argomento per porre fine a dialisi o altri trattamenti di sostegno alla vita.
E alcune voci, nella nostra cultura amplificano questi sentimenti allarmanti. Tony Kushner lega l'Alzheimer al suicidio nel suo nuovo lavoro teatrale di Broadway, "Guida dell'omosessuale intelligente al capitalismo e al socialismo con una chiave per le Scritture". Il suo eroe di 72 anni, Gus Marcantonio, un sindacalista in pensione, racconta alla sua famiglia riunita che crede di avere l'Alzheimer, e vuole vendere la casa di famiglia e suicidarsi durante il week-end. Gus non ha sintomi che gli altri possono vedere tranne aver perso il filo una volta in un discorso volubile, serio e commovente. Nel film del regista coreano Lee Chang-dong "Poesia", che ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes l'anno scorso, l'eroina graziosa ed empatica, di 66 anni, riceve la diagnosi di Alzheimer. Neanche lei ha altri sintomi, a parte una volta aver dimenticato la parola per "stazione degli autobus". Eppure, nel film lei salta giù da un ponte.
I personaggi hanno altri motivi, oltre alla paura, per porre fine alla loro vita: principalmente senso di colpa. Perché, dunque l'Alzheimer è messo in queste trame così vistosamente? Forse perché alla gente nessun'altra motivazione appare plausibile per uccidersi. Nonostante la prevalenza dell'Alzheimer nella nostra conversazione nazionale, la diagnosi della malattia è in realtà difficile. Non esiste un test che può predire se dimenticare i nomi o parole come "stazione di bus" sia un indicatore dell'insorgenza di una malattia degenerativa. Molti anziani perdono la capacità di ricordare i nomi propri, ma poi non progrediscono mai fino a perdere qualsiasi altra parte del discorso.
La maggior parte della dimenticanza non è l'Alzheimer o la demenza, o anche necessariamente un segno di deterioramento cognitivo. E tuttavia ogni profezia sulla cognizione alterata - che sia vera o no - danneggia la fiducia in sé stessi delle persone. Cominciano a essere trattati come bambini, riferiti con linguaggio infantile o evitati. Nella casa di riposo dove mia madre ha vissuto fino alla morte l'anno scorso all'età di 96 anni, il responsabile della cura mi ha detto che alcune persone pensano che l'Alzheimer è contagioso. Vittime di una diagnosi errata - o, più devastante, dell'auto-diagnosi - temono di essere evitati, respinti dalla loro progenie, fare debiti, diventare un "fardello", perdere l'identità.
Non deve essere così. Le persone con disabilità cognitiva possono vivere felici con le loro famiglie per lungo tempo. Mia madre è stata turbata dalla sua perdita dei ricordi, ma ha scoperto il lato positivo del dimenticare. Aveva dimenticato vecchi rancori, come pure il nome dell'ex- presidente George W. Bush. Abbiamo cantato insieme. Recitava le sue poesie preferite e mi ha sorpreso con materiale nuovo. Abbiamo avuto momenti ricchi e amorevoli. Il suicidio non le è mai passato per la mente.
La mente è capace. Molte abilità mentali ed emozionali possono sopravvivere a una semplice perdita di memoria, come fanno altre qualità che ci rendono umani. In effetti, una rivoluzione nel prendersi cura potrebbe lentamente prendere piede, almeno tra chi è consapevole delle narrazioni alternative nella perdita di memoria. Thomas Kitwood, un psicologo britannico pioniere nel campo della cura della demenza, è morto nel 1998, ma i suoi libri, che mettono in risalto la personalità invece della debilitazione, rimangono influenti. "Trovare una scappatoia", libro di memorie di Fuchs Elinor, professore di dramma a Yale, ha esplorato i modelli di conversazione di sua madre quando era nella fase avanzata dell'Alzheimer. Anne Basting, direttrice del "Center on Aging and Community" dell'Università del Wisconsin, a Milwaukee, autrice di una commedia da poesie create da persone con Alzheimer, ha uno slogan: "Dimenticate la Memoria. Provate con l'immaginazione".
Che differenza farebbe se tutti cominciassero a condividere questi atteggiamenti. Potremmo far diventare vergognosi e rari i fabbricatori di paure legate alla cognizione, fare dibattiti sull'assistenza del fine-vita meno scottanti, migliorare i protocolli di trattamento, riconfermare il nostro patto collettivo con le persone anziane, facilitare i rapporti con le persone di qualsiasi età con deterioramento cognitivo, e consentire agli adulti di guardare avanti per invecchiare con la speranza invece della disperazione.
Margaret Morganroth Gullette, studiosa al Women's Studies Research Center della Brandeis University, è autrice di "Agewise: Fighting the New Ageism in America".
Scritto da Margaret Gullette Morganroth su The New York Times il 21 maggio 2011 - Traduzione di Traduzione di Franco Pellizzari.
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