4° Rapporto Censis-Aima - Sintesi dei principali risultati
1. Uno sguardo di insieme. L’indagine sulle persone con Alzheimer ed i loro caregiver
Il quadro che emerge da questo nuovo focus sulle persone con Alzheimer e sulle loro famiglie presenta qualche novità e molte costanti. È trascorso quasi un quarto di secolo dalla prima indagine, realizzata nel 1999 grazie alla collaborazione tra Censis e Aima, che ha raccontato la malattia e la situazione di chi ne soffre attraverso lo sguardo dei caregiver che se ne prendono cura.
È, per certi aspetti, diverso il profilo dei pazienti, tendenzialmente più giovani e di più recente diagnosi e su questo dato, anche tenendo conto delle diverse modalità di reclutamento, per le quali hanno oggi più peso gli utenti del Numero Verde di Aima e i pazienti intercettati presso i Cdcd, impatta la strage silenziosa del Covid, che ha portato con sé le persone affette da Alzheimer più anziane e le più fragili per il più lungo percorso di malattia.
La diagnosi ha quindi intercettato una più ampia quota di persone occupate che in maggioranza hanno sperimentato ripercussioni sul lavoro, così come è accaduto ai caregiver, che sono in prevalenza tra i 46 ed i 60 anni e lavorano nel 55,3% dei casi. Rimane la forte connotazione di genere della malattia, con il 62,2% di pazienti donna e oltre il 70% di caregiver di sesso femminile, in prevalenza figlie per le mamme più longeve, che sono più spesso vedove, e mogli dei pazienti di sesso maschile.
Le donne con Alzheimer sono anche più anziane e più sole e più spesso, rispetto ai maschi, anche se in quota minoritaria, si trovano a vivere non a casa propria, ma a casa di figli o anche di altri parenti. La famiglia rimane comunque il soggetto centrale dell’assistenza e, se possibile, il caregiver appare ancora più solo, può contare su un minore supporto da parte degli altri membri della famiglia e della badante. Uno su cinque (ed è un dato in crescita rispetto alle precedenti rilevazioni) riferisce di non ricevere alcun aiuto e si abbassa anche la quota (dal 48,6% del 2015 all’attuale 41,7%) di chi afferma di poter contare su l’aiuto di altri familiari.
Il ricorso alla badante coinvolge il 41,1% circa delle famiglie, in linea con le precedenti rilevazioni, ma il loro apporto tendenzialmente minore è segnalato dal fatto che si inverte la proporzione tra badanti conviventi e non, con una quota prevalente di non conviventi (28,3% contro il 14,6% del 2015). Nei fatti questo aiuto, che rimane poco professionalizzato e viene garantito, in larghissima prevalenza, da badanti donne e straniere, reclutate attraverso canali informali, appare più ridotto e meno strutturato, ma più caro, dal momento che continua ad impattare in modo significativo sulla spesa delle famiglie (il costo per questo tipo di assistenza aumenta il proprio peso nel tempo e rappresenta il 75% dei 22.500 euro di costi diretti annuali attribuibili ad un malato di Alzheimer (era il 60% nel 2015).
Appare in decremento anche il supporto dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari: l’unico dato in crescita riguarda il numero di chi usufruisce dei servizi socio-assistenziali gestiti da associazioni di volontariato (18,3% contro il 2,4% del 2015), ma gli utenti di centri specifici in questo ambito, come ad esempio i laboratori di stimolazione cognitiva, sono solo il 3,6%. I pazienti che usufruiscono dell’assistenza domiciliare integrata e socio-assistenziale sono il 15,0%, e l’aumento rispetto all’11,2% del 2015 è legato essenzialmente a quello di chi ha accesso a quella esclusivamente socio-assistenziale.
Frequenta i centri diurni una quota in riduzione dei pazienti, il 10,3% del totale, in ulteriore calo rispetto alla situazione fatta registrare nel 2015, 12,5%, contro il 24,9% rilevato nel 2006. Si tratta ancora di percentuali ampiamente minoritarie di pazienti, che possono contare su queste forme di assistenza per un numero di ridotto di giorni e di ore settimanali, che nei fatti lasciano la grandissima parte degli oneri assistenziali in capo alle famiglie.
Qualcosa è cambiato anche rispetto all’accesso ai servizi sanitari, in particolare ai Centri per i disturbi cognitivi e le demenze (Cdcd), eredi delle Uva (Unità di Valutazione Alzheimer) e frutto delle novità introdotte dal “Piano Nazionale Demenze - Strategie per la promozione ed il miglioramento della qualità e dell’appropriatezza degli interventi assistenziali nel settore delle demenze” del 2015. Più della metà dei pazienti (53,3% che sfiora il 60% al Sud) non ha mai effettuato una visita presso un Cdcd e solo il 37,7% dei pazienti è seguito da un Cdcd, a fronte del 56,6% che lo era da un centro Uva nel 2015 e del 66,8% del 2006. Si registra ancora una volta un divario tra i pazienti che risiedono al Nord, presi in carico dal Cdcd nel 48,2% dei casi, contro un terzo circa di quelli che vivono al Centro ed al Sud.
Tra i pazienti che non sono seguiti da un Cdcd, la maggioranza (55,9%) è comunque seguita da uno specialista pubblico, mentre il 30,2% da uno specialista privato. Rispetto al 2015, è però aumentata la quota di pazienti che ha ricevuto la diagnosi in un Cdcd (27,9% contro il 20,6%), ma si tratta di un dato ancora una volta molto differenziato tra le aree del Paese, con il 46,8% dei pazienti del Nord che è stato diagnosticato presso un Cdcd, contro il 20% delle altre aree del Paese.
Il Cdcd è punto di riferimento soprattutto per i pazienti che vi ottengono il piano terapeutico per accedere ai farmaci specifici per l’Alzheimer (è seguito da un Cdcd il 23,9% di chi non li assume, contro il 48,7% di pazienti che usa farmaci specifici per l’Alzheimer). In particolare, i pazienti trattati con farmaci specifici rappresentano una percentuale abbastanza stabile nel tempo (in questa rilevazione il 55,6% assume farmaci specifici per l’Alzheimer a fronte del 56,1% del 2015). Tuttavia, tenuto contro delle caratteristiche del campione e considerando l’articolazione dei pazienti per livello percepito di malattia, emerge un minore ricorso ai farmaci specifici anche allo stato lieve per il quale sono indicati (73,3% li assume attualmente, contro l’83,0% del 2015). È però diminuita (12,8% rispetto al 20,4% del 2015) la quota di chi non li assume a causa di una diagnosi tardiva che non li rende più indicati.
I tempi di diagnosi appaiono comunque poco variabili e in questa ultima indagine si attestano intorno ad una media di 2,0 anni. Nel 2015 si era registrata una diminuzione a 1,8 anni rispetto ai 2,5 registrati sia nel 1999 che nel 2006. Per di più rimangono da segnalare le perduranti difficoltà del percorso di riconoscimento e di diagnosi della malattia: la quota di caregiver che racconta di dubbi e difficoltà prima di arrivare ad essa rimane abbastanza stabile nel tempo (46,1% contro il 44,5% del 2015).
Nonostante l’impegno del Piano nazionale e le risorse stanziate nel 2021 nel “Fondo per l’Alzheimer e le demenze”, l’impianto complessivo dei servizi di cura e assistenza per le persone con Alzheimer non appare dunque particolarmente mutato, forse anzi la situazione delle famiglie risulta per certi versi più problematica, con meno supporto in termini di assistenza informale e da parte di una rete di servizi non particolarmente diffusi, in grado di garantire attività assistenziali per un numero di ore molto limitato, in un quadro di grande differenziazione territoriale.
È vero che l’89,2% dei caregiver afferma di poter contare su un punto di riferimento unico ma, anche se il dato è in linea con la rilevazione del 2015, la novità è l’articolazione delle risposte rispetto a più tipologie di servizio: il 17,2% indica il Mmg e percentuali che oscillano intorno al 15% invece lo studio privato dello specialista e il Cdcd. L’ambulatorio della Asl, che era indicato come punto di riferimento unico dal 35,6% nel 2015, lo è oggi solo per il 7,2%.
Nei fatti è sul caregiver che si concentrano la maggior parte degli oneri assistenziali, con importanti conseguenze sulla sua condizione individuale: il 68,3% dei caregiver afferma di sentirsi solo, ma l’84,9% ritiene di essere utile pur in una situazione di grande difficoltà. Tutta la famiglia appare condizionata dalla malattia del proprio congiunto: in oltre la metà dei casi sono segnalate tensioni tra i familiari, mentre il 40% rivela la presenza di difficoltà nel seguire la propria famiglia, il coniuge e i figli, per far fronte ai compiti di caregiver.
La pandemia da Covid-19 ha messo ancor più in evidenza tutte le problematiche legate alla solitudine delle famiglie ed all’impatto dei compiti assistenziali.
Due terzi degli intervistati segnalano conseguenze della esperienza vissuta durante la pandemia, mettendo in luce l’acuirsi dell’isolamento che, per la maggioranza, ha determinato un peggioramento della condizione del proprio familiare. Il tema della solitudine e dell’isolamento è più volte segnalato dai caregiver che sentono di vivere un carico assistenziale difficilmente condivisibile e nei fatti poco supportato dai servizi.
Continua, infatti, ad essere minoritaria, ed anzi è ancora più bassa rispetto al 2015, la quota del campione che fornisce un giudizio positivo sull'attuale situazione della cura dell’assistenza pubblica al proprio familiare: si tratta del 36,2% e il dato varia tra le diverse zone del paese, tant’è vero che sale al 48,6% al Centro e si abbassa ulteriormente al Sud, fino ad arrivare al 23,1%.
Nella percezione della maggioranza relativa dei caregiver (42,3%), negli ultimi anni e, in particolare, dopo la pandemia, non si è riscontrata nessuna variazione significativa nell'offerta di servizi per le persone con Alzheimer e anzi per un 29,8% la situazione è sostanzialmente peggiorata. Per un’ampia maggioranza di questi caregiver già impegnati in una attività di assistenza, il tema della tutela giuridica del caregiver si traduce nella opinione favorevole alla possibilità di retribuzione, sia legata alla partecipazione a corsi di formazione (57,4%) che a prescindere da essi (23,5%). E questo anche perché, rispetto ai modelli auspicabili di presa in carico delle persone con Alzheimer, solo una minoranza (18,1%) si dichiara favorevole ad una espansione della offerta residenziale.
Al contrario, l’opzione per un modello ottimale di assistenza per le persone con Alzheimer, che emerge nelle risposte dei caregiver, è quello di una rete di servizi ampia e presente in tutte le fasi di malattia. Per il 53,3% dei caregiver, infatti, il modello migliore prevede una rete adeguata di servizi per la diagnosi e la presa in carico della malattia anche nelle fasi avanzate, unita ad una rete adeguata di supporto alle necessità assistenziali in grado di agire soprattutto a domicilio.
Ad oggi, però, ben poco pare mutato rispetto alla condizione di chi convive con l’Alzheimer e a quel modello assistenziale di fatto basato su un’ampia delega alle famiglie, con le difficoltà permanenti di uno scarso sviluppo dei servizi, ed una sorta di progressivo ridimensionamento, un po’ sotto traccia, anche del ruolo delle badanti. Lo conferma anche la nuova stima dei costi economici e sociali della malattia, che mostra un aumento complessivo del costo medio annuo per paziente, che ha raggiunto i 72.000 euro, con un incremento in termini reali del 15,0% rispetto al 2015 della quota di costi diretti a carico delle famiglie.
Nei fatti, siamo ancora all’esordio di quel percorso di innovazione della presa in carico delineata dal Piano Nazionale Demenze, che ha bisogno di essere finalizzata ed accelerata per dare risposte concrete ai crescenti bisogni delle famiglie, ma anche di tutto il paese, sempre più alle prese con l’impatto epidemiologico dell’invecchiamento, molto temuto ma nei fatti ben poco affrontato.
2. La ricerca sulle persone con Mild Cognitive Impairment (MCI)
Una importante novità di questo studio è la realizzazione di una indagine su un campione di persone con una diagnosi di disturbo cognitivo lieve o Mci, che ha permesso di squarciare il velo su una condizione poco conosciuta ma di grande interesse, sia sotto il profilo umano che rispetto all’evoluzione possibile dell’attuale modello dei servizi.
Il tema della diagnosi e della presa in carico precoce è infatti strategico proprio per contrastare efficacemente l’evoluzione degenerativa della malattia, anche alla luce degli attesi sviluppi aperti dalle innovazioni farmacologiche. Qual è dunque il profilo delle persone a cui è stato diagnosticato un Mci? Si tratta in prevalenza di pazienti abbastanza giovani; infatti, anche se l’età media è di 71 anni, il 45,1% del campione ha meno di 70 anni. In questo caso non si riscontra una prevalenza femminile, come nell’Alzheimer. Inoltre, in linea con la popolazione della stessa fascia di età, la maggioranza (55,7%) ha al massimo la licenza media.
Prevalgono i pensionati (quasi l’80%), quasi tutti sono coniugati e vivono nella loro famiglia, con il marito o la moglie e/o con i figli.
Sono persone a cui è stato diagnosticato un disturbo cognitivo lieve (Mci), che si sono prima trovati davanti a dei segnali, tutti legati a deficit più o meno gravi di memoria (tra cui prevale la difficoltà a trovare le parole o ad esprimersi), ritenuti via via preoccupanti, anche se con tempistiche diverse. Segnali che li hanno condotti a consultare un medico, con tempi e scelte differenti, dipendenti in larga misura dall’età.
Come è infatti prevedibile, i più giovani si sono preoccupati subito (quasi 1 su 5) e si sono rivolti allo specialista in tempi più brevi: il 60% circa non ha fatto trascorrere più di 6 mesi dalla comparsa dei sintomi, mentre tra chi ha più di 71 anni la metà circa ha aspettato un anno o più. Nel complesso, poco meno di un terzo del campione li ha derubricati come sintomi dello stress o del normale invecchiamento senza preoccuparsene, ed una quota poco più bassa ha scelto comunque di aspettarne l’evoluzione.
Il primo referente a cui si sono rivolti è il medico di medicina generale, seguito dallo specialista neurologo pubblico, mentre solo il 6,9% ha consultato direttamente un Centro per i Disturbi Cognitivi e le Demenze (Cdcd). Nel vissuto iniziale di malattia di queste persone prevale, dunque, un senso più o meno soffuso di preoccupazione ed un insieme di dubbi ed incertezze nel percorso di progressivo riconoscimento, che ha riguardato anche i referenti clinici interpellati, così come viene segnalato dal 46,0% degli intervistati. È evidente che si tratta di dubbi sull’interpretazione dei sintomi più presenti nel caso di intervistati più giovani e comunque più sperimentati da chi si è rivolto all’interlocutore più facilmente accessibile e più interpellato, il Mmg.
Tuttavia, la stragrande maggioranza del campione, anche per le modalità della sua selezione, indica nel Cdcd il soggetto che ha effettuato la diagnosi. Nei fatti, come rilevato per la diagnosi di Alzheimer, il tempo medio trascorso dalla consapevolezza della presenza di segnali preoccupanti nella propria condizione e la diagnosi di Mci è di 2 anni, un tempo che passa tra sottovalutazione, preoccupazione e ricerca di un interlocutore.
L’ottenimento della diagnosi è un momento certamente essenziale, perché coincide con la presa in carico per il 42,2% del campione, che la considera importante per guarire o evitare il peggioramento. Non mancano sentimenti contrastanti sul valore di questo momento, ma prevalgono gli atteggiamenti positivi: il 37,5% lo considera un momento strategico di acquisizione di consapevolezza, perché dà un nome ed una spiegazione ai sintomi, anche se non elimina i timori per il futuro. Solo il 18,2% afferma che avrebbe preferito non sapere, per la paura di quello che il futuro può comportare in chiave di aggravamento dei sintomi.
Ed in effetti questi pazienti, che nel 52,7% dei casi soffrono di un disturbo cognitivo lieve classificato come amnesico (cioè, di un deficit di memoria isolato), sono quasi tutti seguiti da un Cdcd, dato su cui può aver impattato anche la modalità di selezione del campione.
In poco più della metà dei casi hanno ricevuto indicazione per un percorso basato su stili di vita e terapie non farmacologiche, in quota maggiore tra i più giovani. Si tratta in prevalenza di un’attività fisica regolare, poi di una dieta specifica e/o di esercizi per la memoria e per le funzioni cognitive, con un 15,5% che è stato indirizzato presso un centro dove svolge attività di stimolazione cognitiva. Solo l’8,2% degli intervistati afferma di non fare nessuna attività.
I centri che hanno contribuito alla selezione del campione hanno fornito anche indicazioni sulla terapia farmacologica a cui hanno accesso gli intervistati. In particolare. il 38,2% assume farmaci per il trattamento dell’Mci e il 41,2% è entrato a far parte di un protocollo sperimentale; sfiora invece la metà del campione (47,1%) la percentuale di intervistati che assume integratori specifici per la funzione cognitiva (come Citicolina, Vitamina E) o fa uso di prodotti di medicina complementare o di erboristeria.
Interessanti le opinioni espresse dagli intervistati in merito al valore dei farmaci attualmente utilizzati: quasi un terzo del campione afferma che essi hanno una efficacia parziale, ma è simile la quota di chi, pur ammettendo di non essere sicuro della loro efficacia, afferma che assumerli ha comunque un valore importante, proprio per la sensazione di essere curati. Minore invece la percentuale di chi ne sottolinea l’impatto effettivamente positivo sulle proprie condizioni (20,5%). Nonostante la rilevanza attribuita all’approccio terapeutico farmacologico, solo il 25% circa del campione è al corrente della prospettiva di una disponibilità a breve di nuovi farmaci per il trattamento del disturbo cognitivo lieve, percentuale che si eleva leggermente nel caso dei pazienti più giovani (27,8%). e di quelli che vivono al Nord (33,0%).
Le aspettative per questi nuovi farmaci di coloro che sono al corrente della loro prossima disponibilità danno la misura di quanto la possibilità di intervenire con un approccio farmacologico sulla cura del proprio disturbo sia ritenuta rilevante. Uno su 4 è particolarmente fiducioso e pensa che modificheranno totalmente la condizione delle persone con Mci, dando loro la possibilità di guarire ed il 34,8% ritiene che potranno avere un impatto nel ritardare l'eventuale evoluzione della malattia verso le forme più gravi. Sono minoritarie le posizioni più pessimiste sulla reale possibilità che i nuovi farmaci possano davvero modificare la condizione delle persone con Mci.
Una condizione che appare già impattata dalla presenza di questi disturbi, con il 68,5% che, pur ammettendo che non sono particolarmente gravi, denuncia la presenza di difficoltà nella propria quotidianità. Quasi 2 pazienti su 3 indicano di aver bisogno di una qualche forma di sostegno, che anche in questo caso è quasi totalmente appannaggio dei familiari. Limitazioni e conseguenze sperimentate sia nei rapporti con l’esterno che nello svolgimento dei propri compiti familiari e domestici, con una riduzione delle attività, soprattutto extralavorative, e con un impatto maggiore proprio sui più giovani, ancora ampiamente coinvolti in esse.
Particolarmente rilevanti anche le conseguenze a livello psicologico, con il 90% ad indicare che è la paura a dominare la loro esistenza, il timore di poter peggiorare e quindi perdere la propria indipendenza finendo per pesare sempre di più sulla propria famiglia. Anche una sensazione di profonda solitudine è citata da una quota importante del campione, pari al 63,9%; una sensazione legata alla percezione della impossibilità di condividere con qualcuno quello che la propria condizione rappresenta, l’idea cioè che nessuno possa capire davvero la condizione psicologica che vivere con questa diagnosi e con un disturbo cognitivo, seppure lieve, comporta, soprattutto in termini di timori per il futuro.
Questo determina anche una maggiore difficoltà di rapporto con i familiari, che evidentemente hanno anch’essi difficoltà a gestire la situazione. Va però sottolineato che poco più del 50% degli intervistati afferma di aver riconsiderato le proprie priorità grazie alla malattia.
Il rapporto con i servizi assistenziali è praticamente insistente ed il supporto psicologico fornito dal Servizio sanitario nazionale appare largamente insufficiente per ampie quote del campione. Risulta più positiva la valutazione nei confronti dei servizi sanitari che attualmente seguono gli intervistati, dal momento che il 51,2% del campione li giudica molto o abbastanza soddisfacenti.
Nel complesso, però, le prospettive per il futuro non sono rosee per gli intervistati né sotto il profilo della offerta dei servizi che avranno a disposizione né rispetto all’idea complessiva del proprio destino futuro. Più della metà teme che, a causa della carenza di servizi adeguati, nel caso di insorgenza di problemi più gravi, finirebbe per pesare sulla propria famiglia. Ma tutta l’incertezza della condizione delle persone con Mci si rivela nel modo in cui si articolano le ipotesi degli intervistati su quello che sarà: il 38,9% mostra un approccio di concretezza che si esprime nell’impegno attuale nel fare qualcosa per prepararsi ad ogni evenienza, ma a fronte di questo atteggiamento razionale ritroviamo un 27,1% che invece afferma di non pensarci completamente.
L’angoscia per il futuro emerge forse con maggiore forza da quel 34,0% che afferma che vorrebbe pensarci ma non riesce ad immaginare, ad affrontare forse, neanche l’idea del proprio destino futuro. E le maggiori difficoltà sono proprio dei più giovani, con quote più ampie di chi preferisce rimuovere l’idea di quel che potrebbe succedere.
Non stupisce, così, che sia molto netta l’indicazione sulla priorità più rilevante rispetto alla condizione vissuta: in relazione a ciò che è ritenuto più utile per affrontare i loro problemi, gli intervistati rispondono prima di tutto (88,2% dei rispondenti) terapie farmacologiche efficaci. L’idea della disponibilità di nuovi farmaci efficaci rappresenta forse la prospettiva futura su cui contano e si affidano maggiormente, richiamata con modalità più o meno esplicite come il fondamento della loro speranza.
Fonte: CENSIS
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