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E' la prevenzione la nuova frontiera dell'Alzheimer

Sono passati 111 anni da quando Auguste D. è diventata la prima persona descritta con quello che ora è chiamato Morbo di Alzheimer. Lo psichiatra tedesco Alois Alzheimer, da cui la malattia prende il nome, ha riferito per la prima volta pubblicamente le sue osservazioni su Auguste nel 1906, quando è morta all'età di 56 anni. Ora, con l'aumento dell'aspettativa di vita (ci sono 29 nazioni con un'aspettativa media di vita superiore a 80 anni) lo spettro dell'Alzheimer si profila più grande che mai.


“Per la mia esperienza, l'Alzheimer è la malattia più temuta dalle persone con più di 65 anni”, ha detto David Geldmacher MD, direttore della Divisione Disturbi della Memoria nel Dipartimento di Neurologia dell'Università dell'Alabama di Birmingham. “E se è vero che gli sforzi per trovare una cura per l'AD non hanno ancora avuto successo, gran parte di quella paura può essere fuori luogo, dal momento che abbiamo imparato tanto circa la malattia nel corso degli ultimi decenni”.


Così tanto che Geldmacher dice che è la prevenzione, non la cura, la chiave per fermare l'Alzheimer: “Quando ho iniziato la mia carriera nel campo della demenza, l'Alzheimer era una scatola nera che non riuscivamo ad aprire. Non riuscivamo nemmeno a diagnosticarla se non con l'autopsia dopo la morte. Non siamo riusciti a trattarlo o a rallentarne la progressione o a impedire che insorga, ma oggi capiamo meglio il morbo e siamo molto più vicini allo sviluppo di terapie significative che saranno utili nella prevenzione e nel trattamento“.


Geldmacher, che ha avuto di recente la cattedra di Neurologia nella Facoltà di Medicina dell'UAB, paragona il processo a quello che ha permesso alla medicina di superare flagelli precedenti come la polmonite: “In primo luogo abbiamo dovuto scoprire la teoria dei germi, quindi isolare i batteri responsabili della polmonite, sviluppare antibiotici per uccidere i batteri e quindi alla fine sviluppare un vaccino per prevenire la malattia. Ciò ha richiesto circa 100 anni. Stiamo seguendo lo stesso percorso di conoscenza con l'Alzheimer, ma ora con strumenti molto migliori”.


Uno di questi strumenti è la PET, la tomografia a emissione di positroni. Le scansioni PET usano traccianti radioattivi che si legano alle sostanze nel corpo e poi si illuminano durante la scansione, producendo immagini che mostrano l'aumento dell'attività cerebrale. Nell'Alzheimer, i servizi di scansione avanzati come quello dell'UAB usano uno speciale tracciante che si lega ad una proteina del cervello chiamata amiloide-beta. L'amiloide è di norma prodotta nel cervello, ma un aumento anormale (o accumulo) di amiloide è tossico, e caratteristico dell'Alzheimer.


“Ora possiamo usare l'imaging PET per guardare il cervello di una persona senza sintomi di perdita di memoria o di demenza, e vedere se è già in corso un accumulo di amiloide”, ha detto Geldmacher. “Questo non ci dice quando potrebbero iniziare i sintomi di demenza, ma indica un aumento del rischio di Alzheimer ad un certo punto in futuro. Ancora più importante, dà un obiettivo agli sforzi aggressivi per ridurre la quantità di amiloide e, si spera, per ridurre il rischio“.


La UAB è coinvolta attivamente in diversi studi clinici volti a ridurre i livelli di amiloide nel cervello, tra cui lo studio A4, un test nazionale con 66 siti di sperimentazione. I partecipanti saranno sottoposti a PET per cercare l'accumulo di amiloide. Quelli con amiloide significativo riceveranno un farmaco chiamato solanezemab, fornito tramite infusione, che si lega alla proteina amiloide e aiuta il corpo a eliminarla.


Un secondo studio, chiamato EARLY che inizierà più avanti quest'anno, è su un farmaco orale che si pensa possa inibire la produzione di amiloide, riducendo il suo livello nel cervello. Lo studio DIAN-TU sta esaminando una variante a esordio precoce di Alzheimer chiamata «Alzheimer a ereditarietà dominante», un tipo di malattia più rara causata da una mutazione genetica.


“Questo studio, condotto in individui più giovani che hanno un rischio genetico per la malattia a causa di un genitore con Alzheimer derivante da una di queste mutazioni, sta testando due anticorpi monoclonali progettati per ridurre l'amiloide”, ha detto Erik Roberson MD/PhD, ​​professore di Neuroscienze, e ricercatore dell'UAB per l'esperimento. “Anche se ci sono alcune differenze tra questo tipo di malattia ad esordio precoce e la malattia più comune associata all'età, crediamo che i risultati avranno implicazioni per gli studi e trattamenti futuri di tutti i tipi di Alzheimer”.


Un'altra ricerca, chiamata EMERGE, è uno studio di fase III per valutare un farmaco chiamato aducanumab per l'Alzheimer. I risultati di uno studio precedente sull'aducanumab avevano indicato che aveva una curva dose-risposta, il che significa che dosi più alte hanno risposte migliori. L'esperimento EMERGE sta reclutando pazienti con una condizione chiamata «lieve deterioramento cognitivo».


“Ora che riusciamo a usare le scansioni PET per predire la probabilità di Alzheimer, abbiamo cambiato il modo di caratterizzare la malattia”, ha detto Roberson. “Eravamo abituati a considerare il decadimento cognitivo lieve come un precursore dell'Alzheimer. Ora lo vediamo come parte della malattia, solo a uno stadio precoce. Perché funzionino le strategie di prevenzione, dobbiamo considerare il primo segno di accumulo di amiloide, prima che emergano i sintomi, come punto di partenza della malattia”.


Anche se Geldmacher e Roberson sono entusiasti delle prospettive di prevenzione, entrambi ammettono che sono necessarie terapie migliori per coloro che hanno già la malattia, come pure modi migliori per aiutare le famiglie e i caregiver a gestire la complessità di far fronte a un malato di Alzheimer. “Non possiamo invertire la demenza una volta iniziata, e non siamo in grado di indurre l'organismo a produrre più neuroni dopo che le cellule cerebrali sono morte”, ha detto Roberson. “Dobbiamo trovare i modi di alleviare i sintomi e fornire una migliore qualità di vita”.


Un metodo è nell'uso del corredo genetico proprio di un individuo per prevedere e stabilire quali farmaci sul mercato funzionano meglio per gestire i sintomi particolari dell'individuo.


Uno studio del Dipartimento della Difesa, realizzato in collaborazione con Rita Jablonski-Jaudon PhD, professore associato della UAB, sta usando la telemedicina per guidare in modo personalizzato il caregiver a rispondere ai comportamenti distruttivi, ridurre lo stress del caregiver e migliorare l'ambiente domestico. Il progetto, che può anche avere utilità per i pazienti con lesioni cerebrali traumatiche, usa la videoconferenza via Internet.


Geldmacher dirige anche il servizio clinico di valutazione del rischio e intervento sull'Alzheimer della UAB, il primo del genere nel paese. I pazienti ricevono una valutazione dettagliata e personalizzata del rischio, che comprende la storia familiare, la storia dettagliata della memoria del paziente, i test cognitivi e una risonanza magnetica al basale. Tali informazioni sono incorporate in modelli predittivi del rischio esistenti, convalidati da studi di ricerca che hanno seguito migliaia di pazienti per ben 20 anni per produrre una valutazione accurata del rischio.


“Ci concentriamo sui fattori di rischio reversibili”, ha detto Geldmacher. “Troppe persone che hanno di fronte la demenza si concentrano sui fattori di rischio irreversibili, come 'sto invecchiando' o 'il mio papà o la mamma hanno avuto la demenza'. Non possiamo cambiare quelle cose, ma siamo in grado di cambiarne altre, come l'attività fisica, il colesterolo e la pressione del sangue”.


Egli dice che gli studi hanno dimostrato che la riduzione di uno o più fattori di rischio può avere un effetto significativo sulla riduzione delle probabilità complessive di sviluppare l'Alzheimer.


“Sono più ottimista sul fatto che troveremo i modi per prevenire e curare l'Alzheimer ora di quando ho iniziato nel settore”, ha detto Geldmacher. “La clinica del rischio, la diagnosi pre-sintomatica, l'avanzamento delle scansioni: tutti questi progressi ci hanno dato nuovi obiettivi per le indagini. Durante la mia carriera, abbiamo sequenziato il peptide amiloide, e abbiamo scoperto i geni che potrebbero modificarlo e regolarlo. Ancora più importante, abbiamo capito i fattori sotto il nostro controllo che ci permettono di modificare il rischio di Alzheimer“.

 

 

 


Fonte: Bob Shepard in University of Alabama at Birmingham (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.

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Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.


 

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