Questi sono tempi entusiasmanti ma impegnativi nella ricerca di Alzheimer (AD). Si sta delineando e approfondendo, a molti livelli, un quadro più dettagliato della malattia, ma altri aspetti restano molto enigmatici.
Inoltre restano incompiuti i progressi a lungo sperati per lo sviluppo di una terapia che modifica la malattia.
Di seguito le aree in cui c'è stato di recente un progresso trasformativo, costante o parziale.
- Ricerca fiorente in biomarcatori e scansioni che forniscono visioni sulla struttura, la chimica, e la connettività del cervello, che vanno dai casi pre-clinici ai pazienti con sintomi minimi, a quelli con demenza [1]. Gli strumenti di imaging attuali ed emergenti e i biomarcatori del fluido cerebrospinale offrono i metodi per valutare meglio il rischio di demenza e la velocità di progressione.
La US Food and Drug Administration (FDA) ha recentemente riconosciuto questi strumenti come promettenti, fornendo nuove linee guida per il percorso di approvazione iniziale in studi preclinici di prevenzione [2]. Diversi studi di prevenzione di AD attualmente in corso, o che arruoleranno presto dei soggetti, potranno testare criticamente l'utilità di questi biomarcatori in questi studi cardine, e potenzialmente la volontà della FDA di utilizzare surrogati di marcatori al posto delle modifiche cognitive o funzionali come punti finali di esperimento. - I progressi della ricerca di base comprendono la dimostrazione della disfunzione circuitale, della connettività [3] e dei modelli di diffusione delle proteine mal ripiegate patologicamente (tau, Abeta42 e alfa-sinucleina) [4, 5, 6, 7] per spiegare la progressione della malattia e, forse, per mostrare nuove strade per il trattamento. Degli strumenti migliori per caratterizzare gli oligomeri di proteine patogene stanno aiutando a chiarire i loro ruoli negli eventi patologici.
- La ricerca genetica su larga scala in persone ben fenotipizzate ha dato nuovo impulso all'ipotesi amiloide per l'Alzheimer. Il rischio attenuato di famiglie islandesi con una rara mutazione della proteina precursore dell'amiloide (APP) fornisce un'ulteriore prova del ruolo attivatore dell'Aß nell'AD [8] e ulteriore sostegno agli sforzi per ridurre l'Aß prima della sua deposizione nel cervello.
- Due consorzi hanno delineato il rischio significativo per l'AD dellevarianti TREM2 [9,10]. Questa associazione genetica tra un recettore noto per regolare l'attivazione di microglia / monociti e per rilasciare più decisamente le citochine stabilisce un legame genetico tra immunità innata e AD. Numerosi studi preclinici suggeriscono inoltre che varie manipolazioni all'immunità innata possono modulare la proteostasi dell'Aß e della tau e di altri tipi di fenotipi in modelli preclinici. Nell'insieme questi dati giustificano la prosecuzione di indagini sul ruolo dell'immunità innata in AD e suggeriscono che da tali studi potrebbero emergere nuovi approcci terapeutici.
Tuttavia, questi progressi positivi sono temperati da dati e osservazioni che forniscono un quadro che fa riflettere su quanto sia difficile tradurre la nostra maggiore comprensione della malattia in terapie che danno benefici ai pazienti:
- I risultati negativi o debolmente positivi provenienti da grandi test clinici di fase 3 per terapie con anticorpi monoclonali pongono domande su come e quando colpire l'amiloide cerebrale in modo efficace. Date gli enormi costi associati a questi esperimenti, i dati negativi ottenuti finora ridurranno gli investimenti del settore privato nell'AD?
- Studi dettagliati di neuropatologia indicano l'alta frequenza di patologie coesistenti (AD, lesioni vascolari, patologia sinucleica, e sclerosi ippocampale) che possono combinarsi per trasformare le capacità cognitive del paziente in demenza sintomatica [11, 12]. Tali dati sollevano la possibilità che gli approcci a bersaglio singolo possono avere benefici limitati, specialmente in pazienti sintomatici.
- La mancanza di obiettivi ben definiti di trattamento oltre a quelli che influenzano la produzione o l'eliminazione di Aß. Sebbene tau e apolipoproteina E siano studiati da decenni, è debole la ricerca traslazionale per produrre obiettivi farmacologici e composti candidati. Inoltre rimangono gravi lacune nella conoscenza dei vari fattori a valle dell'Aß, quelli che collegano Aß e tau, e quelli che guidano la neurodegenerazione. Tutto questo presenta enormi ostacoli allo sviluppo di nuovi approcci terapeutici per l'AD.
Da un punto di vista sociale, ci auguriamo di essere ad un punto di svolta in termini di tradurre in migliore sostegno la maggiore consapevolezza pubblica della malattia. Infatti, anche in tempi fiscali difficili, non sembra essere aumentato l'interesse politico a riconoscere che gli enormi problemi di salute pubblica derivanti dall'AD impattano gli sforzi per aumentare i finanziamenti del settore pubblico e anche per stimolare la partnership pubblico-privato. Tuttavia, dati i costi economici e sociali, l'AD sembra essere molto sottofinanziato.
Una seconda questione che dovremmo prendere in considerazione è garantire che gli sforzi per passare alla prevenzione primaria o secondaria non diminuiscano quelli per sviluppare nuovi trattamenti di AD nelle fasi sintomatiche. Anche se gli studi di prevenzione attuali danno risultati promettenti, passeranno ancora molti anni prima che una terapia profilattica di successo possa essere ampiamente distribuita.
Per quelli a rischio di AD in un prossimo futuro e per coloro che attualmente soffrono di questa malattia, siamo moralmente obbligati a cercare di sviluppare nuovi approcci che possono influenzare il decorso della malattia nelle persone che hanno attualmente i sintomi di declino cognitivo.
Può essere opportuno prendere in considerazione anche gli approcci più invasivi di quanto sono abituati i ricercatori, come la stimolazione profonda del cervello, la terapia genica, o l'infusione diretta di un agente terapeutico nel cervello.
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Referenze:
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Scritto da: Douglas Galasko (Department of Neurosciences, University of California, San Diego), Todd E Golde (Center for Translational Research in Neurodegenerative Disease, Department of Neuroscience, McKnight Brain Institute, College of Medicine, University of Florida) e Philip Scheltens (Department of Neurology and Alzheimer Center, VU University Medical Center and Neuroscience Campus Amsterdam)
Pubblicato in Alzheimer's Research & Therapy il 29 Maggio 2013 (> English version) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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