La ricerca sta cercando di determinare se la malattia di Alzheimer possa essere rallentata o impedita con approcci nutrizionali, ma un nuovo studio dell'Università dell'Oregon suggerisce che questi sforzi potrebbero essere migliorati con l'uso di "biomarcatori" nutrienti per valutare obiettivamente lo stato nutrizionale degli anziani a rischio di demenza.
L'approccio tradizionale, che si basa principalmente su indagini dietetiche auto-riportate, chiede alle persone di ricordare ciò che hanno mangiato. Tali indagini non considerano due problemi comuni negli anziani - l'effetto che il deficit di memoria ha nel ricordare la loro dieta, o i problemi digestivi che potrebbero influenzare l'assorbimento dei cibi.
Questo problema è particolarmente preoccupante, dicono gli esperti, perché l'età è il fattore di rischio primario per l'Alzheimer, e l'ondata della prossima generazione del baby boom e persone di 85 anni e più, farà presto crescere il numero di persone a rischio di demenza.
"Gli studi dietetici e nutrizionali hanno dato alcuni risultati interessanti, ma sono incoerenti", ha detto Emily Ho, professore associato di nutrizione della Oregon State University, co-autore dello studio e ricercatore principale del Linus Pauling Institute presso la stessa università. "Se vogliamo determinare con precisione scientifica se l'uno o l'altro approccio nutrizionale per prevenire la demenza abbia più valore, dobbiamo avere metodi che riflettano con precisione lo stato nutrizionale dei pazienti. Lo standard principe per valutare lo stato nutrizionale dovrebbero essere i biomarcatori basati su analisi del sangue."
La ricerca è stata appena pubblicata su Alzheimer's Disease and Associated Disorders, studio sostenuto dal National Institutes of Health, condotto dal Dott. Gene Bowman, un ricercatore di nutrizione e invecchiamento della Oregon Health and Science University, in collaborazione con ricercatori OSU.
Le strategie di prevenzione per l'Alzehimer sono "sempre più fattibili", hanno detto i ricercatori, perché gli scienziati stanno cominciando a capire quali sono le popolazioni ad alto rischio di sviluppo della malattia.
"Uno dei problemi per un buon studio è capire lo stato nutrizionale dei partecipanti, quando inizia e come cambia con la cura nutritiva", ha affermato Ho. "Dare integratori o alimenti a una persona che è già in uno stato di nutrizione normale per quei nutrienti, può essere molto diverso di quando la persona ne è carente".
A complicare la questione, ha detto, è che gli anziani in generale non possono assorbire o elaborare molte sostanze nutritive come anche gli adulti giovani, ed a causa di differenze genetiche potrebbero avere differenti risposte biologiche allo stesso livello di una sostanza nutritiva. Conoscere ciò che mangiavano dà, al massimo, solo un quadro parziale di quello che è in realtà il loro stato nutrizionale. E si assume anche che le persone, inclusi quelli con demenza iniziale, ricordino sempre con esattezza ciò che è stata realmente la loro dieta di fronte a domande su circa 124 prodotti alimentari in un colloquio che può durare fino a due ore.
In questo studio, gli scienziati hanno reclutato 38 partecipanti anziani, la metà con deficit di memoria documentata e l'altra metà cognitivamente intatti. Hanno confrontato l'affidabilità dei biomarcatori nutrizionali con questionari quindicinali sul cibo somministrato. Il questionario era in grado di determinare i livelli di alcuni nutrienti, ma solo nel gruppo con memoria intatta. L'affidabilità dei biomarcatori nutrizionali dipendeva dalla sostanza nutriente di interesse, ma nel complesso ha ottenuto buoni risultati.
"Ora che abbiamo un test affidabile del sangue per valutare lo stato nutrizionale, possiamo iniziare a studiare le combinazioni dei biomarcatori di nutrienti, le loro funzioni interattive, e come essi possono influenzare collettivamente le malattie croniche, compreso il rischio per l'Alzheimer e la demenza", ha detto Bowman. Tali strategie potrebbero portare a terapie nutrizionali più efficaci in futuro per promuovere la salute cognitiva, ha detto.
Fonte: Materiali forniti da Oregon State University.
ScienceDaily, 21 gennaio 2011