«Il lungo addio»: il dolore anticipatore che avvolge la demenza, l'attesa dell'inevitabile, il chiedersi quando e come potrebbe accadere. Il lungo addio, e all'improvviso se ne sono andati.
Un sabato mia madre stava apparentemente bene, a parte il suo Alzheimer, che l'aveva spogliata di memoria, mobilità, appetito, indipendenza e continenza di qualsiasi tipo e che l'aveva derubata di ciò che era reale e lasciava una terrificante narrativa al suo posto: "Chi ha rubato i miei soldi?", "Shhhh. Stanno ascoltando, ascoltano sempre", "Perché quegli uomini in giardino hanno le pistole?".
Se il suo cervello era rotto, il suo cuore, i polmoni e i reni sembravano funzionare bene. La sua parte meccanica era in ordine e funzionante anche se quella intellettuale era andata a pezzi mesi, anni, prima. E poi all'improvviso anche quelle cose smettono di funzionare, e in tre giorni se n'era andata: un addio così lungo, e improvvisamente se n'era andata.
E nei giorni successivi, ho alimentato la mia memoria per lei, con ricordi che non coinvolgevano l'avermi dimenticato da parte sua, o le allucinazioni, o i pannoloni, o il nutrirla come un bambino, un cucchiaio in bilico davanti a labbra serrate. E non sono riuscita a trovarne nessuno. Se l'Alzheimer aveva rubato la sua storia, sembrava aver rubato così tanto anche della mia.
Ma poi, tre mesi dopo la morte della mamma, abbiamo tenuto un servizio commemorativo in una città dove lei una volta viveva, vicino a un paese dove aveva vissuto più di un decennio fa. Non ero tornata sin da quando era lì, intera, sana e calorosa.
Ed è lì che l'ho ritrovata. I miei ricordi o le mie lacrime non sono fluiti nelle parole della messa cattolica che abbiamo fatto celebrare per lei, perché le sarebbe piaciuto, né nella musica (Flying over Africa di John Barry, Celtic Farewell di Phyllis Sparks e Gabriel’s Oboe di Ennio Morricone), né nel vedere i volti dei famigliari, né nell'elogio di mio fratello.
No, sono arrivati quando ho visto quella campagna un tempo familiare, campagna vasta e pallida al sole di fine estate e che non vedevo da più di un decennio. Avevo dimenticato la vastità di quei campi, così grandi che uno vicino al vecchio villaggio della mamma era soprannominato 'little America'. Ho pianto in quello che un tempo era il suo supermercato locale. Ho pianto quando ho visto segnali stradali della A509.
"Prendi quell'uscita dalla M1", mi ha detto la prima volta che sono tornata a casa da Londra. "La 509 è il percorso migliore". La strada più semplice verso casa, disse, mentre guidavo su strade di campagna sempre più strette fino a quando non ero lì: a casa.
Il dolore ci trova in posti divertenti. Non sappiamo quali ricordi lasceranno le persone fino a quando non se ne saranno andate. Segnali stradali e supermercati, cose semplici che fanno uscire una parte profonda di te sepolta da tempo, un ricordo di lunga durata di dolce ordinarietà: mia madre che chiede ai miei figli cosa volevano fare quel giorno; "Andare da Tesco", la risposta in coro.
E così li prese, tutti e tre, vibrando per l'eccitazione, mettendone uno sopra un carrello e gli altri due ai suoi lati e prendendosi il tempo di girare tra le corsie, riempiendo il carrello di cose che non avrebbe mai comprato normalmente.
Petit Filous, Creme Caramel (che ha insegnato loro come mangiare: ribaltando il contenitore su un piattino in modo che la dolcezza zuccherata bruciata corresse lungo i lati di un piccolo tumulo di crema), mousse di cioccolato in vasetto, che ha insegnato loro a riempire fino all'orlo di crema, quindi a inserire dentro un cucchiaio in modo da creare un pozzetto per metterne ancora po' di più.
Ed eccoli lì: quei preziosi ricordi che hanno preceduto la demenza. Là li ho trovati.
Fonte: Anthea Rowan in Psychology Today (> English) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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