Patti Davis, di 63 anni, figlia di Donald Reagan, è la fondatrice del gruppo di supporto 'Beyond Alzheimer's' (Oltre l'Alzheimer). Foto: Rick Loomis / Los Angeles Times
Dopo che Ronald Reagan è diventato il malato di Alzheimer più conosciuto in America, amici, parenti e anche sconosciuti con le migliori intenzioni fermavano di frequente sua figlia, Patti Davis, chiedendole: "Come sta tuo padre?".
Solo raramente qualcuno chiedeva: "E tu come stai?"
È comprensibile, ovviamente, questo concentrarsi sul paziente. Ma l'esperienza della Davis durante la battaglia lunga anni del suo defunto padre l'ha portata a formare un gruppo di sostegno settimanale gratuito: Beyond Alzheimer's (oltre l'Alzheimer).
Dopo quasi 5 anni di attività alla University of California di Los Angeles, il gruppo traslocherà il prossimo mese al St. John di Santa Monica, ma continuerà con la stessa missione: prendersi cura dei caregiver.
"Le persone arrivano [al gruppo di supporto] per la prima volta armati di tutti quei fatti sulla madre o il padre. Dicono: 'Prendono questo farmaco, hanno avuto la diagnosi in questa data, ed i loro medici dicono questo e quello'. E allora io dico loro: 'E tu come stai?' E in quel momento devono elaborare la domanda e, quasi inevitabilmente, arrivano le lacrime. Magari è la prima volta in un anno, o di più, o mai, che hanno sentito 'Ma tu come stai andando' ".
Più di 5 milioni di americani vivono con l'Alzheimer, e i numeri possono solo peggiorare con l'invecchiamento dei baby boomer. Abbiamo chiesto alla Davis qualche consiglio per la generazione sandwich, quelli che vivono una vita dura, presi tra far crescere i figli e prendersi cura dei genitori anziani, senza parlare delle esigenze di carriera. Ecco quello che ci ha detto:
Perché questa malattia è particolarmente estenuante per i caregiver?
Lo stress del caregiver è una cosa molto reale. La persona che ha l'Alzheimer non avverte lo stress allo stesso modo del caregiver. Per lei, ogni momento è nuovo. Sono i caregiver che si preoccupano del futuro, del passato e del presente. Sono costantemente preoccupati delle finanze, di che cosa sta per succedere, la pressione non si allenta mai. La loro sensazione è: "non ho la malattia, non ho diritto all'attenzione".
Cominciano a sentirsi meno importanti, meno significativi. Su un aereo, quando ti danno le istruzioni sulla maschera d'ossigeno, ti dicono di metterti la tua maschera prima di aiutare un bambino o le persone anziane o disabili. E io uso molto questa analogia. I caregiver devono prendersi cura prima di se stessi. Essi hanno diritto che i loro sentimenti siano capiti, nutriti e discussi.
C'è anche un altro tipo di senso di colpa. Ci sono cose difficili che nascono e che gli altri non capiscono. A volte i caregiver hanno a che fare con qualcuno che non può più parlare o è costretto a letto. E vorrebbero che finisse, desiderano che arrivasse la morte. Sentono la consapevolezza reale ad ammettere questo con chiunque altro. Qualcuno all'esterno potrebbe dire: "Questo è terribile, è una cosa terribile da dire". Ma [all'interno del gruppo di supporto], tutti lo capiamo. Questo desiderio che finisca. Siamo in un luogo sicuro in cui si può ammetterlo.
Tu dici che le prime fasi della malattia sono in realtà le più difficili per i caregiver. Ciò sembra contro-intuitivo, che cosa significa?
Sono le tappe più difficili. La persona che ha la malattia sa che c'è qualcosa di sbagliato in lei ed è terrorizzata. Sta perdendo la presa su tutto ciò che sa, che è familiare. Ricordo mio padre in piedi nel salotto di casa dei miei genitori che diceva: "Non so dove mi trovo". Era devastante. E' un'altra stranezza di questa malattia: come progredisce e peggiora per il paziente, le cose possono realmente diventare più facili per il caregiver, ma per lui arriva anche un tipo proprio di colpa.
Perché questo è il momento in cui bisogna decidere se inserire una persona cara in una struttura?
Sì, ed è una delle decisioni più strazianti che qualcuno deve prendere. Dice: "Non posso farlo, lo sto abbandonando". E io dico: "No. Se lo porti nel deserto e lo getti fuori dalla macchina e ti allontani, quello sarebbe abbandono. Metterlo da qualche parte dove sarà assistito 24/7, con le strutture (cosa molto importante per l'Alzheimer) e l'accesso alle cure mediche in ogni momento ... è una delle cose più amorevoli che puoi fare".
Come va un incontro medio? Perché avviene in un ospedale? Non è che sia l'ultimo posto in cui le persone vogliono andare?
Ho voluto farlo in un ospedale perché è simbolico. I famigliari e i caregiver dovrebbero essere trattati come pazienti. Ciò aggiunge molta forza a quel messaggio, se sei seduto fisicamente in un ospedale.
Conduco gli incontri con un co-facilitatore, di solito un neurologo o un neuropsicologo o un altro ospite. Offriamo prospettiva e altre informazioni per pochi minuti. E poi facciamo il giro del tavolo e ogni persona può parlare di quello che sta attraversando. Oppure può scegliere di non parlare. Giriamo attorno al tavolo con un movimento ordinato. A volte le persone hanno suggerimenti pratici. Un problema comune [con i malati di Alzheimer] è che non vogliono fare il bagno. Così qualcuno potrebbe avere un suggerimento su come ha affrontato quel problema.
Che pedaggio prende su di te?
In tutti gli anni che ho fatto questo, ho perso solo una notte [di sonno], ed è stato perché ero nel bel mezzo di un trasloco.
Penso che sia molto importante. Mi sento come se avessi una missione, ma anch'io ne tiro fuori qualcosa. Quando condivido le esperienze che ho avuto con mio padre, aiuta anche me. Ma è così gratificante per me l'idea che le persone possano venire qui e sentirsi meno sole, meno isolate e ottenere alcune risposte davvero buone.
Fonte: Rene Lynch in Los Angeles Times (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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